Nella capitale americana, davanti alla sua gente, Robert McElroy ha pronunciato parole che nessun prelato di alto rango, fino a oggi, aveva osato dire con tanta nettezza: le politiche migratorie di Donald Trump sono un attacco governativo senza precedenti, un progetto deliberato per fare a pezzi famiglie, umiliare padri e madri, traumatizzare bambini innocenti. Non sono “incidenti collaterali”, ma un disegno crudele che punta a far “auto-espellere” chi non regge la miseria e la paura.
Non c’è stata retorica: c’è stata la denuncia!
E insieme l’appello, limpido: la Chiesa deve stare accanto agli ultimi, non a chi li perseguita. E i cittadini non devono restare in silenzio mentre l’ingiustizia viene compiuta in loro nome.
In un’America cattolica spaccata, con un episcopato spesso più preoccupato di compiacere il potere che di difendere il Vangelo, questa voce rompe il muro dell’omertà. Ricorda che l’essere cristiani non è una decorazione identitaria, ma una responsabilità: quella di difendere i più fragili, di gridare contro chi semina terrore, di non accettare che la legge sia usata come manganello.
Robert McElroy non parla da vassallo né da politico travestito da prete: parla da pastore. Certo, la sua nomina a Washington fu una scelta coraggiosa di Papa Francesco, ma oggi quelle parole pesano solo sulla sua coscienza e sulla sua libertà. Non c’è più un Papa a coprirlo: c’è un uomo di Chiesa che ci mette la faccia, rischia l’isolamento, e dice la verità.
E in tempi in cui tanti prelati preferiscono il silenzio o la prudenza, la sua omelia ha il sapore della buona notizia. Perché dimostra che c’è ancora chi ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. E che la parola “eretico” può tornare a significare “libero”: libero da calcoli di carriera, libero dalla paura di disturbare il potere, libero di difendere l’uomo prima di ogni ideologia.









