Quando abbiamo scelto Sumatra come destinazione del nostro viaggio, l’abbiamo fatto soprattutto perché eravamo spinti dall’idea di incontrare le tribù Mentawai, che abitano le isole parallele alla costa occidentale di Sumatra.
Il nostro intento era quello di conoscere tribù autentiche, ancora lontane dalla globalizzazione del mondo occidentale e ignare di ciò che accade nella nostra parte del globo terrestre.
Conoscevamo qualche fotografo che aveva vissuto la stessa esperienza e che ce ne aveva parlato molto bene, così abbiamo seguito le loro indicazioni.
Sapevamo fin dall’inizio che non sarebbe stata una “vacanza” nel senso più classico del termine niente comfort, niente coccole. Eravamo consapevoli che avremmo dovuto mettere alla prova il nostro spirito di adattamento e lasciare da parte, almeno per un po’, gran parte delle comodità occidentali a cui siamo abituati. Ma, come dico sempre, era davvero questo il senso più profondo del nostro viaggio: dimenticarci completamente della nostra vita in Europa e fonderci con la cultura locale.
Così, provvisti sempre di tanto entusiasmo e buona volontà, ci imbarchiamo da Padang per un viaggio di circa quattro ore in traghetto, diretti a Palau Siberut. Sul traghetto ci sono in maggioranza turisti, per di più surfisti, che come noi si accingono a raggiungere l’isola che è anche uno dei luoghi più famosi al mondo per praticare surf.
All’arrivo, siamo accolti da due ragazzi molto giovani, che conducono noi e un’altra coppia di turisti italiani, a bordo di una camionetta verso un punto di ritrovo. Qui ci introducono all’esperienza che ci attende, offrendoci caffè e biscotti mentre ci raccontano cosa ci aspetta.
Dopo esserci equipaggiati con grandi stivali da pioggia e aver ricevuto qualche dono da portare alle tribù locali, cioccolato e sigarette che ci incoraggiano a comprare, siamo finalmente pronti a partire. Percorriamo, sempre con la stessa camionetta, un’unica lunga strada dissestata e infangata per circa un’ora, per poi avventurarci in una camminata di trenta minuti attraverso la giungla, sotto la pioggia battente.
C’è un momento della giornata, quello che va più o meno dalle 16 alle 18 del pomeriggio, in cui quasi sempre piove se ti trovi nella giungla.
Finalmente arriviamo alla Uma ovvero la casa. Ad attenderci con un gran sorriso, la mamma della nostra guida, il nonno e qualche altro membro della famiglia. Tutto si svolge in un’unica stanza, si chiacchiera, si beve caffè e tè, si mangia e si dorme. Sempre nella stessa stanza e sempre tutti assieme: noi, la tribù, i loro cani e gatti. Attorno a noi, fuori dalla Uma, il verde, un fiume in cui lavarsi, anatre, maiali e galline.
Tre giorni che mi sembrano interminabili, in un luogo dove il tempo sembra dilatarsi all’infinito. Nessuna connessione internet, solo lunghe conversazioni che spesso si rivelano complicate dal livello elementare d’inglese della nostra guida e da quello, ovviamente nullo, dello sciamano e del resto della famiglia.
Il secondo giorno, il nonno, lo sciamano del villaggio, ci mostra come vengono realizzati i loro costumi tradizionali. Poi ci invita ad assaggiare le larve vive, e con un sorriso divertito ci incoraggia a travestirci da “abitanti delle Mentawai”, fornendoci gli abiti tipici. La madre, invece, ci accompagna a pescare.
Durante la giornata ci raccontano il significato dei loro tatuaggi e il senso profondo del vivere lì, in armonia con la natura. Lo sciamano ci mostra infine come si preparano le lance e il veleno usato per la caccia, gesti antichi, tramandati di generazione in generazione.
Davanti a queste ‘’attività’’ non so che atteggiamento avere. Sicuramente sono divertenti e anche interessanti ma non riesco a non pensare che, per quanto un tempo facessero davvero parte della loro quotidianità, oggi vengano riproposte quasi esclusivamente per i turisti, create ad hoc più che per reale necessità di sopravvivenza. Infatti, il cibo che abbiamo mangiato tutti assieme alla sera attorno al fuoco seduti per terra, era quello portato dal villaggio e non per esempio quello pescato o cacciato. Ho chiesto loro se sono infastiditi dalla presenza dei turisti che negli anni stanno aumentando sempre di più ‘’finché ci portano dolciumi e sigarette, noi siamo felici’’ ed è stata proprio quest’ultima abitudine che mi ha colpita tanto: le sigarette. I Mentawai fumano ad ogni ora della giornata, senza sosta.
Impossibile non riflettere su come l’affluenza dei turisti abbia potuto cambiare le loro abitudini. Non credo che ciò che si può sperimentare con loro sia solo un artefatto, ma sicuramente è in ogni caso qualcosa di preparato e imbellettato per i turisti.
E allora mi ritrovo a riflettere su quale fosse il significato di autentico per noi. Cosa cercavamo noi, come tanti altri occidentali, di tanto particolare e diverso andando lì e visitando queste tribù?
Cosa ci aspettavamo di vivere?
In realtà non lo so. Io non avevo aspettative, ma so che avrei voluto vivere qualcosa di più naturale e meno organizzato.
Torniamo a Padang e io porto dentro un senso di dubbio, non so se sono realmente soddisfatta dell’esperienza, non so se la rifarei.
Il giorno dopo ci rechiamo in un paese vicino e, nel porticciolo, conosciamo il nostro traghettatore, colui che ci avrebbe trasportati su una spiaggia desolata raggiungibile solo via mare. Li ho l’occasione di ammirare la sua famiglia, vedo la moglie cucinare per noi e per i suoi figli, la vedo giocare con loro e lavare il bambino più piccolo. Così provo a coccolarlo, ci rido e ci scherzo. Poi mi ricordo di quando durante la visita a un villaggio indonesiano, dichiarato come uno dei borghi più belli dell’Indonesia, mi sono imbattuta in una vecchia signora e sua nipote. Non parlava inglese, né io indonesiano, ma giuro che c’è stato qualcosa di magico. Abbiamo riso, mi ha toccato i capelli e poi il naso e siamo scoppiate entrambe a ridere. Ci siamo sfiorate le mani e li ho sentito di entrare davvero in contatto con la sua anima. Forse era questo quello ciò che mi aspettavo. Questo quello che cercavo. Nessuna cosa che si possa comprare con dei soldi tramite un sito internet di tour organizzati. Una connessione inesplicabile, che solo naturalmente si può creare.
Mi sono resa conto che ciò che in realtà stavo ricercando era un’autenticità che si trova solo nelle persone reali, quelle che incontri per le strade o ai mercatini, quelle curiose di conoscerti tanto quanto lo sei tu.
Lì si nascondeva la vera Indonesia, quella autentica che stavamo cercando e che per sempre avrei portato con me nel cuore.









