Era il 4 luglio 1952, tappa Losanna–Alpe d’Huez. La strada saliva verso il Col du Galibier, una delle ascese più dure e leggendarie del ciclismo. Tra la polvere, il sudore e le ruote che masticavano la ghiaia, il fotografo Carlo Martini fermò il tempo. Uno scatto che sarebbe diventato simbolo universale di lealtà sportiva. Eppure, ancora oggi, nessuno sa – o forse nessuno ha voluto dire – chi dei due abbia passato la borraccia all’altro.
Per capire la portata di quella foto bisogna tornare a quell’Italia divisa tra il rigore e la speranza, tra il dopoguerra e il miracolo economico che ancora non c’era.
Coppi, il “Campionissimo”, rappresentava la modernità, la scienza applicata alla fatica. Preparazione maniacale, aerodinamica, alimentazione controllata – era avanti di decenni.
Bartali, “Ginettaccio”, era invece il cuore antico del ciclismo: fede, istinto, testardaggine. Correva più per orgoglio che per tattica.
Nel 1952 correvano entrambi per la Nazionale Italiana, costretti a condividere maglia, squadra e gloria. Due galli nello stesso pollaio, verrebbe da dire. Eppure, su quella salita impossibile, uno dei due allunga la mano e offre da bere all’altro.
Quando lo scatto uscì su “Lo Sport Illustrato” pochi giorni dopo, con la didascalia “Ecco Coppi e Bartali, i due grandi atleti della squadra italiana, si scambiano l’acqua”, l’Italia intera si commosse. Per un istante, coppiani e bartaliani smisero di litigare nei bar e davanti ai giornali.
Col passare degli anni, la leggenda è diventata un enigma.
Alcuni giurano che fu Bartali a passare la borraccia a Coppi, in segno di rispetto per la sua superiorità tecnica. Altri sostengono il contrario: fu Fausto, più giovane, a offrirla al vecchio rivale.
C’è poi chi racconta che tutto fu orchestrato da Carlo Martini, deciso a placare le tensioni tra i tifosi dei due campioni. Una trovata, forse, ma geniale: quella foto, vera o costruita, avrebbe attraversato i decenni come una parabola morale sul rispetto reciproco.
Eppure, nel 2020, un ex corridore, Marino Vigna, ha ritrovato un negativo integrale dell’immagine. Nella foto originale, accanto ai due italiani, c’è anche il belga Stan Ockers, secondo in classifica generale dietro Coppi. Il mito della “solitudine degli eroi” svaniva così, rivelando che i campioni non erano soli. Ma l’aura del mistero, invece di dissolversi, si è solo rafforzata. Perché la verità, in fondo, è meno importante del significato che quella foto ha assunto.
Raccontare Coppi e Bartali è come raccontare due Italie. Coppi, l’uomo del Nord, elegante e riservato, era il volto del progresso, del Paese che voleva cambiare. Bartali, il toscano schietto e devoto, era la memoria, il senso del dovere, la fatica che non si negozia. Erano diversissimi, ma complementari. Uno viveva di calcolo, l’altro di cuore. Uno aveva il passo leggero dell’airone, l’altro la solidità del contadino che non molla mai.
Eppure, senza l’uno, l’altro non avrebbe avuto la stessa grandezza. La rivalità, se autentica, può essere una forma di rispetto. Nello sport, come nella vita, è l’avversario che ti costringe a superarti. Coppi e Bartali, anche quando si odiavano, erano uniti da questa consapevolezza.
Il gesto di quella borraccia è diventato una lezione di civiltà. Nel 1952 la parola “fair play” non era ancora di moda. Oggi la usiamo ovunque, spesso a sproposito, ma allora aveva il sapore dell’eccezione. Quel passaggio d’acqua raccontava qualcosa di più profondo: la fatica condivisa, la complicità silenziosa tra avversari che si rispettano perché sanno cosa significa soffrire sulla stessa salita.
Non a caso, molti lo paragonano all’abbraccio tra Jesse Owens e Luz Long alle Olimpiadi del 1936. Anche lì, due rivali, due mondi agli antipodi, un solo gesto di rispetto. Certe immagini restano scolpite perché ricordano a tutti noi che la grandezza non è soltanto vincere, ma riconoscere il valore dell’altro anche quando ti contende il podio.
Negli anni Cinquanta le fotografie non si scattavano per caso: erano atti di memoria. Quella di Martini, pubblicata e riprodotta in ogni dove, è diventata una icona del Novecento italiano. Oggi diremmo che rappresenta il primo esempio di storytelling sportivo: un’immagine che, più che documentare, racconta.
La forza di quella foto sta anche nel suo bianco e nero, nella grana grossa che restituisce la polvere delle Alpi, la luce tagliente del pomeriggio, il respiro corto dei corridori. In un’epoca senza social, senza dirette e senza replay, uno scatto come quello bastava a costruire un mito. E quel mito, a distanza di settant’anni, continua a emozionare perché parla la lingua universale della lealtà e della fatica condivisa.
Fausto Coppi vinse quel Tour con 28 minuti di vantaggio sul secondo, proprio Ockers. Dominò in salita, a cronometro, e fece la storia. Bartali, più anziano, fu comunque protagonista: il suo esempio, la sua determinazione e la sua presenza accanto a Coppi furono parte integrante di quella vittoria. Non si amarono mai, ma si stimarono sempre. Lo capisci dai gesti, dalle parole misurate, da quella complicità fatta di silenzi.
Ecco perché la loro rivalità non appartiene solo al ciclismo, ma alla cultura italiana. È un duello che ha diviso e unito, come quello tra Guelfi e Ghibellini, ma con un finale diverso: due nemici che, in cima a una salita, si scambiano una bottiglia e, senza dirlo, si perdonano.
Forse è meglio che non sapremo mai chi dei due porse la borraccia. Perché se il mistero fosse risolto, la magia svanirebbe. Quelle mani tese, sospese nel tempo, ci insegnano qualcosa di più del ciclismo: ci ricordano che anche nella competizione più dura può esserci spazio per la solidarietà.
Oggi, in un mondo che spesso ha dimenticato il senso del rispetto, l’immagine di Coppi e Bartali continua a parlarci. Ci dice che vincere è importante, sì, ma esserci, insieme, lo è di più. E che a volte, una borraccia passata sull’asfalto rovente di un passo alpino può contenere tutta la grandezza del cuore umano.









