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Cosa ci raccontano le viscere dell’Etna grazie alle onde sismiche e ad uno studio tutto italiano

L’Etna è una di quelle presenze che non puoi ignorare. Se ne sta lì, imponente, a dominare la Sicilia orientale come un vecchio signore dal temperamento incerto, ma dalla forza immutabile. È il vulcano più attivo d’Europa, ed è anche uno dei più studiati al mondo. Ma, paradossalmente, continua a nascondere molti dei suoi segreti.

Una recente ricerca tutta italiana, pubblicata sulla rivista Communications Earth & Environment, getta nuova luce su quello che accade sotto i nostri piedi, sfruttando una tecnologia di imaging geofisico che meriterebbe molta più attenzione anche da parte dei non addetti ai lavori. Perché capire il comportamento dell’Etna non è solo un esercizio accademico: può fare la differenza tra la prevenzione e l’improvvisazione.

La storia dell’Etna affonda le sue radici nel tempo profondo. Le prime tracce di attività vulcanica risalgono a circa 700 mila anni fa, con emissioni di magma subalcalino che hanno iniziato a modellare il paesaggio. La sua forma attuale, quella del classico vulcano, ha cominciato a definirsi tra i 200 e i 100 mila anni fa.

La parte sommitale, quella oggi attiva, si è formata circa 14 mila anni fa dopo una violenta eruzione esplosiva. Da allora, il vulcano non ha mai smesso di respirare: attività persistente, degassamenti continui, episodi stromboliani, e talvolta parossismi spettacolari. Ma la vera complessità si cela sotto la superficie.

Il cuore dello studio coordinato da Gianmarco Del Piccolo e Manuele Faccenda, ricercatori dell’Università di Padova, si basa sull’utilizzo della tomografia sismica P, una tecnica che permette di “fotografare” l’interno della Terra grazie al comportamento delle onde sismiche primarie (onde P), che si propagano attraverso solidi e liquidi.

In questo caso, sono stati analizzati 37.537 arrivi di onde P registrati tra il 2006 e il 2016 dall’Osservatorio Etneo dell’INGV. L’approccio adottato ha tenuto conto dell’anisotropia elastica delle rocce, ovvero della variazione delle proprietà meccaniche in funzione della direzione. Un elemento finora trascurato in molti modelli, ma decisivo per comprendere la distribuzione interna delle fratture e dei canali magmatici.

Il risultato? Un’immagine tridimensionale ad alta risoluzione della crosta etnea, che rivela l’esistenza di un sistema di dicchi radiali tra i 6 e i 16 chilometri di profondità. Non una semplice camera magmatica, quindi, ma una complessa rete di fratture riempite di magma pressurizzato che si diramano come tentacoli sotto tutta la struttura del vulcano.

Studio sismico sull'Etna coordinato da Gianmarco Del Piccolo e Manuele Faccenda, ricercatori dell’Università di Padova, sull’utilizzo della tomografia sismica P

Questa scoperta è fondamentale per spiegare un dato noto solo dalle osservazioni, ma mai del tutto compreso: le eruzioni laterali dell’Etna. Non tutte le eruzioni, infatti, avvengono dalla cima. Molte bocche si aprono improvvisamente sui fianchi, anche a quote relativamente basse. Il motivo è proprio questa rete di canali che funge da sistema di trasporto del magma verso la superficie, sfruttando le direzioni di minore resistenza nella crosta.

Un altro concetto chiave dello studio è l’analisi dell’orientamento preferenziale delle fratture (Shape Preferred Orientation, SPO), che consente di dedurre lo stato di stress locale. In parole povere, il magma tende a farsi strada lungo le direzioni meno compresse della crosta terrestre.

Il paragone usato da Gianmarco Del Piccolo è efficace: immaginate una persona che deve attraversare una folla. Se tutti le vengono incontro frontalmente, farà fatica; se invece trova un varco tra persone disposte lateralmente, passerà molto più agevolmente. Così fa il magma: cerca i punti deboli per salire.

Sgombriamo subito il campo da equivoci: questo studio non ci consente ancora di prevedere con precisione quando avverrà una nuova eruzione. Ma permette di individuare dove ci sono maggiori probabilità che si apra una nuova bocca eruttiva. E questo, sul piano della mitigazione del rischio vulcanico, è comunque un bel passo avanti.

In prospettiva, l’integrazione di modelli tomografici con dati geodetici, deformazioni del suolo e segnali geochimici potrebbe davvero avvicinarci a una geologia predittiva. Una frontiera che oggi sembra vicina, ma che richiede ancora ricerca, fondi e — diciamolo — una visione strategica.

Ciò che rende questa ricerca ancora più interessante è la sua trasferibilità. Le metodologie applicate, infatti, sono utili anche in contesti non vulcanici: aree ad alto rischio sismico, campi geotermici, bacini petroliferi. Insomma, un quadro strutturale adattabile a molteplici ambienti geodinamici.

E questa è forse la parte più entusiasmante: vedere un progetto di ricerca italiano, nato da un finanziamento del Consiglio delle Ricerche Europeo vinto nel 2019, porsi come punto di riferimento internazionale per lo studio dei sistemi magmatici complessi. Un esempio concreto di come la scienza possa produrre strumenti utili alla collettività.

In definitiva, ancor oggi gli scienziati non possono dire quando l’Etna erutterà. Ma si sta iniziando a capire come e dove potrebbe farlo. E questo, in un mondo che troppo spesso scopre i rischi naturali solo quando è troppo tardi, è già molto.

Capire il linguaggio della Terra non è facile. Ma ogni nuova mappa, ogni nuovo modello, ogni dato in più ci avvicina a quella comprensione. E se continueremo a investire in ricerca — quella seria, paziente e rigorosa — forse un giorno riusciremo a prevedere ciò che oggi possiamo solo osservare.

Perché prevenire non sarà mai tanto affascinante quanto assistere ad un’eruzione, ma è senz’altro molto più utile.

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