di Vincenzo Campione
A poco più di trent’anni dagli Accordi di Oslo è doveroso interrogarsi sul perché quello che doveva essere “l’inizio della pace in Medioriente” si è poi rivelato un colossale fallimento che di fatto ha inasprito una situazione già di per sé incontrollabile. Il principale obiettivo dell’ambizioso progetto portato avanti da Clinton con massima segretezza nel 1993, doveva essere l’avvio di un graduale processo di pace che avrebbe portato alla nascita di due Stati. Israele avrebbe dovuto ritirarsi progressivamente dai Territori Occupati nel 1967, mentre i palestinesi avrebbero costituito un’autonomia temporanea, preludio a uno Stato indipendente.
Nessun tavolo di trattativa, però, avrebbe potuto sostenere l’enorme pressione derivante dal conflitto, né affrontare in maniera esaustiva temi chiave quali: frontiere, sicurezza, accesso e gestione dell’acqua, diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, futuro delle colonie ebraiche e la divisione di Gerusalemme in due capitali.
Il più grande fallimento degli Accordi è senza dubbio la suddivisione territoriale della Cisgiordania: si decise di suddividere la regione in tre aree, ciascuna caratterizzata da un diverso livello di controllo e di influenza.
L’Area A, che rappresenta circa il 18% del territorio, venne posta sotto pieno controllo civile e di sicurezza palestinese, comprendendo le principali città della Cisgiordania.
L’Area B, pari a circa il 22%, rimase invece sotto amministrazione civile palestinese, ma con la sicurezza gestita congiuntamente da Israele e dall’Autorità Nazionale Palestinese.
Infine, l’Area C, che copre circa il 60% del territorio, fu mantenuta sotto il controllo esclusivo israeliano, sia dal punto di vista civile sia da quello militare.

La complessa realtà giuridica della Cisgiordania.
L’inquadramento giuridico della Cisgiordania resta estremamente complesso, soprattutto per la sua suddivisione in Aree. Sebbene Israele eserciti un controllo de facto sul territorio, soprattutto attraverso insediamenti civili e militari, tale dominio non equivale a una sovranità legittima: la comunità internazionale continua infatti a riconoscere la Cisgiordania come parte del futuro Stato palestinese, in linea con la Risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza ONU.
Dal punto di vista del diritto internazionale umanitario, il territorio va considerato “occupato”, con conseguente applicazione delle norme previste dal Regolamento dell’Aia del 1907 e dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949.
Il mantenimento dell’attuale status quo rende sempre più remota la prospettiva della “soluzione dei due Stati”, obiettivo originario degli Accordi di Oslo. La frammentazione del territorio, aggravata dall’espansione degli insediamenti israeliani nell’Area C, ostacola di fatto l’autodeterminazione palestinese e la nascita di uno Stato sovrano e geograficamente continuo.
La coesistenza di diversi regimi giuridici complica inoltre l’applicazione del principio di uguaglianza davanti alla legge sancito dall’articolo 26 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, con ripercussioni sullo status dei residenti e sulla tutela dei diritti di proprietà.
Il futuro della Cisgiordania appare così intrappolato tra tre scenari: il mantenimento dello status quo, che favorirebbe l’espansione degli insediamenti e una possibile “segregazione giuridica”; un’annessione unilaterale da parte di Israele, che costituirebbe una violazione del diritto internazionale; o, al contrario, un trasferimento totale dell’amministrazione ai palestinesi, ipotesi che rischierebbe di generare nuove tensioni e ritorsioni.
Tra le alternative, si affaccia la proposta di una rinegoziazione su base binazionale o confederale: nel primo caso, la creazione di un unico Stato con pari diritti per israeliani e palestinesi; nel secondo, la nascita di due entità sovrane ma strettamente legate da accordi di cooperazione in ambiti come sicurezza, economia e risorse comuni. Entrambe le opzioni richiederebbero, tuttavia, un livello di fiducia e cooperazione oggi lontano.
In definitiva, gli Accordi di Oslo si sono dimostrati inadeguati a garantire una pace stabile. L’obiettivo di una convivenza equa e duratura tra i due popoli appare più distante che mai, nonostante i recenti, fragili tentativi di tregua a Gaza.
Serve, dunque, una revisione profonda degli Accordi del 1993, che tenga conto del mutato contesto geopolitico e coinvolga la comunità internazionale come garante di futuri, credibili negoziati.











