Non intendo sminuire il valore della liturgia o dei segni visibili che ci aiutano ad incontrare Dio. La liturgia è un linguaggio sacro e bello che la Chiesa ha custodito da secoli. Ma quando questa attenzione diventa ossessione per la forma, rischiamo di dimenticare che l’Eucaristia non si esaurisce nel rito: l’Eucaristia è, prima di tutto, incontro, comunità, fraternità e impegno verso il fratello.
Di cosa dovremmo preoccuparci veramente. Il teologo José María Castillo lo diceva anni fa: ci preoccupiamo dei rituali, ma non sempre del povero che aspetta all’uscita della messa, senza avere un posto dove dormire. E questa affermazione, che può sembrare imbarazzante, è profondamente evangelica. Perché Gesù non ha mai dato più importanza all’adempimento esteriore di una regola che alla cura del bisognoso. Lui stesso ha rotto con tradizioni rituali quando si trattava di guarire, di accogliere, di restituire dignità.
Quando leggo queste parole di Castillo, qualcosa risuona nel profondo di me. Credo che a volte siamo ossessionati dall’assicurarci che tutto sia fatto alla lettera: che il canto sia corretto, che la postura sia appropriata, che il rito segua il protocollo esatto. Ma a cosa serve una messa perfetta se poi il cuore se ne va vuoto di compassione? Possiamo avere chiese piene di incenso e calici d’oro, e allo stesso tempo avere un fratello alla porta senza pane né tetto. Questa contraddizione mi addolora, perché penso che questa non può essere la Chiesa che Gesù ha sognato.
Mi commuove ricordare anche le parole di Ángel Ferreiro Currás, che non riusciva a capire come si potessero lasciare i poveri alla porta della chiesa la domenica. A che serve ricevere il Corpo di Cristo se poi non lo riconosciamo in chi ha fame, freddo o è solo?
Forse la vera questione pastorale oggi non è come si celebra la messa, ma come la viviamo dopo. Ci preoccupiamo se il prete abbia celebrato «ad orientem» o «versus populum», ma forse dimentichiamo di chiederci: che dire di questo fedele che non è potuto venire la domenica? Ci interessiamo di lui? Andiamo a trovarlo, gli chiediamo come sta, lo accompagniamo nella sua malattia o nella sua solitudine?
Si parla molto in questi giorni di unità pastorali, strutture che cercano di dare una risposta alla carenza di preti. E possono certamente essere una soluzione organizzativa. Ma non possiamo chiudere gli occhi: hanno anche i loro lati negativi. Molti anziani e persone grandi di età che un tempo nella loro parrocchia vicina trovavano un luogo di incontro con Dio e con i fratelli, sono ora costretti a spostarsi più lontano. Alcuni semplicemente smettono di andarci perché non possono più fisicamente.
E allora sorge spontanea la domanda: non possiamo noi laici assumere un ruolo più attivo? Non possiamo, in assenza del prete, celebrare la Parola di Dio, animare la comunità e accompagnare chi ha bisogno di sentire la vicinanza della Chiesa? Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato con forza che attraverso il battesimo tutti partecipiamo al sacerdozio di Cristo. Tuttavia, sembra che questo insegnamento sia rimasto a dormire in qualche cassetto.
La Chiesa non può essere ridotta alla figura del prete. Siamo tutti il Popolo di Dio. Una comunità viva non dipende solo dall’arrivo di un prete la domenica, ma dalla vera fraternità che si intreccia tra i suoi membri.
Recuperare l’essenziale: la fratellanza. Gesù non ha istituito l’Eucaristia per generare dispute rituali, ma per lasciarci un comandamento di amore e di fraternità. Quando spezziamo il pane, non solo celebriamo un rito, ma proclamiamo la nostra disponibilità a essere pane spezzato per gli altri.
Per questo credo che la Chiesa oggi abbia bisogno di tornare all’essenziale:
- Una fede vissuta in comunità. Non basta semplicemente partecipare; occorre prendersi cura del fratello, della sua vita concreta.
- Una liturgia che porti all’impegno. Che ogni messa ci ispiri ad andare incontro ai poveri, ai soli, ai dimenticati.
- Un protagonismo reale dei laici. Non come sostituti, ma come corresponsabili della missione ricevuta nel battesimo.
Perché, alla fine, la grande domanda che dovremmo porci non è se il rito sia stato perfetto, ma se siamo stati in grado di amare di più dopo aver celebrato l’Eucaristia.
Un sogno di una Chiesa fraterna. Sogno una Chiesa in cui l’importante non sia se la messa si celebri rivolto di fronte o di spalle, ma se sappiamo celebrare con il cuore. Una Chiesa in cui non ci scandalizziamo tanto della comunione in mano o in bocca, ma del fratello che non ha niente da mangiare. Una Chiesa che non disperda i fedeli con distanze e strutture, ma che li unisca nella fraternità e nella tenerezza.
La Chiesa non cambierà solo con documenti o riforme organizzative. Cambierà quando ogni comunità deciderà di vivere la fede come una grande famiglia in cui nessuno resta indietro. Quando un anziano che non può camminare fino al tempio sentirà che la comunità lo sta visitando a casa. Quando il povero che chiede l’elemosina alla porta della chiesa non resterà invisibile, ma sarà accolto come un fratello.
Questa è, in definitiva, la vera conversione pastorale di cui abbiamo bisogno: ritornare al Vangelo, ritornare a Gesù, ritornare alla fraternità.









