E pensare che tutto accadde nel luogo simbolo dell’universalità sportiva, quello spazio che dovrebbe essere neutro, apolitico, privo di tensioni. Ma lo sport, lo sappiamo, non è mai davvero solo sport. È specchio dei tempi, amplificatore di tensioni sociali, megafono di chi non ha voce.
Per capire quel gesto bisogna guardare al contesto. Il 1968 non fu un anno, ma un’epoca concentrata. Da un lato il Maggio francese, dall’altro la Primavera di Praga stroncata dai carri sovietici. Negli Stati Uniti, il sangue di Martin Luther King e Bob Kennedy scorreva ancora fresco sull’asfalto. In Vietnam, la guerra e il massacro di My Lai rivelavano il volto disumano della politica. In Messico, poco prima dei Giochi, la strage di Piazza delle Tre Culture lasciava a terra centinaia di studenti.
Il mondo era in ebollizione, e negli Stati Uniti la questione razziale restava una ferita aperta. Due giovani atleti afroamericani, studenti di sociologia alla San José State University, sentirono che non potevano limitarsi a correre più veloce. Dovevano correre per qualcosa.
Il 16 ottobre 1968, Tommie Smith scatta come una freccia e taglia il traguardo in 19”83, primo uomo nella storia a scendere sotto i 20 secondi. Dietro di lui, John Carlos e un australiano, Peter Norman. Ma il vero record lo stabiliranno pochi minuti dopo, durante la premiazione.
Smith e Carlos salgono scalzi, le calze nere a rappresentare la povertà dei neri d’America. Smith indossa una sciarpa nera, simbolo dell’orgoglio, Carlos porta una collana di perline, “per quelli che sono stati linciati o uccisi senza che nessuno pronunciasse una preghiera”, dirà poi. E quando risuona l’inno americano, i due alzano un braccio guantato di nero e chinano il capo.
Il mondo si ferma. Quel pugno chiuso non è rabbia, è dignità. È la sintesi perfetta di un dolore collettivo trasformato in forza. In quell’attimo, lo sport si fa politica, il gesto diventa linguaggio universale.
Quel gesto non nasce dal nulla. Dietro c’è il lavoro di Harry Edwards, sociologo ed ex atleta, fondatore dell’Olympic Project for Human Rights (OPHR), un movimento che voleva denunciare le discriminazioni nel mondo dello sport e della società americana. Edwards aveva proposto il boicottaggio dei Giochi da parte degli atleti neri, ma ben presto capì che era irrealizzabile. Così suggerì un’alternativa, quella di usare la ribalta olimpica per protestare in modo pacifico.
Smith e Carlos raccolsero quell’eredità simbolica. Sapevano di rischiare tutto, carriera, reputazione, futuro, ma erano pronti a pagare il prezzo. “Perché dovremmo correre in Messico quando dobbiamo strisciare a casa nostra?”, diceva Edwards. Il podio divenne così il loro palcoscenico, la pedana da cui lanciare al mondo un messaggio che nessun microfono avrebbe potuto amplificare meglio.
In mezzo a quei due pugni alzati, c’era un volto bianco: quello di Peter Norman. Australiano, 26 anni, figlio di un macellaio, uomo di profonda fede. Aveva sentito parlare del progetto OPHR e ne aveva compreso il significato. Non si tirò indietro: indossò anche lui la spilla dell’organizzazione e suggerì ai due americani di dividere la coppia di guanti — uno ciascuno — quando Carlos dimenticò i propri al villaggio olimpico.
Quel gesto gli costò la carriera. Pur avendo ottenuto più volte i tempi di qualificazione per le Olimpiadi di Monaco ’72, la federazione australiana lo escluse senza spiegazioni. Fu emarginato, ignorato, cancellato. Solo nel 2012, sei anni dopo la sua morte, il Parlamento australiano si scusò ufficialmente per il trattamento subito.
Quando Norman morì, nel 2006, Smith e Carlos portarono la sua bara. “Peter non ha voltato lo sguardo dall’altra parte e un bianco poteva anche farlo”, disse Smith. Un riconoscimento postumo a un uomo che aveva scelto di stare dalla parte giusta della storia.
Ma quale fu il prezzo di quel coraggio? La risposta del mondo olimpico fu dura. Avery Brundage, presidente del CIO, parlò di “violazione deliberata dello spirito olimpico” e ne ordinò l’espulsione. Smith e Carlos furono banditi dal villaggio, estromessi dalla nazionale, e finirono nel mirino dell’odio razzista. Ricevettero minacce di morte, lettere anonime, pacchi con escrementi. Carlos, perseguitato per anni, vide la moglie togliersi la vita.
Eppure nessuno dei due si pentì. “Se vinco, sono americano. Se sbaglio, torno ad essere un negro”, dichiarò Smith. Era la fotografia perfetta di un’America che celebrava i suoi campioni neri solo finché restavano in silenzio.
Dal podio alla cultura pop! Col tempo, quel gesto ha attraversato decenni e linguaggi. È diventato icona visiva e simbolo di resistenza.
Nel 2005, nel campus di San José, venne inaugurata una scultura che riproduce il podio di Città del Messico. Il secondo gradino, quello di Norman, è rimasto vuoto, così che chiunque condivida i suoi valori possa salirci.
Cinema e musica hanno continuato a raccontare quell’istante: documentari come Il Saluto o Black Power Salute, le copertine dei Rage Against the Machine e di Kendrick Lamar, i murales di Oakland e Melbourne, i videoclip dei Public Enemy e di Jay-Z.
Il pugno alzato è diventato un segno grafico, un archetipo di ribellione.
Oggi, quando un atleta si inginocchia durante l’inno o solleva un pugno per protestare contro le ingiustizie, sta dialogando con quella stessa immagine del 1968.
Il tempo ha trasformato quel gesto in un linguaggio universale: quello della dignità umana. Lo sport, ancora una volta, si è dimostrato il luogo dove i limiti fisici incontrano i limiti morali, e dove il silenzio può gridare più forte delle parole.
Forse è proprio questo il senso profondo di quella fotografia: ricordarci che ogni vittoria è vana se non è accompagnata dal coraggio di difendere ciò che è giusto.
E, ogni volta che qualcuno alza il pugno verso il cielo, idealmente, sul secondo gradino di quel podio ci siamo anche noi.









