Era il 19 luglio 1992. Una domenica di mezza estate. A Palermo esplode una Fiat 126 carica di tritolo: il giudice Paolo Borsellino ed i cinque agenti della sua scorta muoiono sul colpo. Tra loro c’è lei, Emanuela, 24 anni, la prima donna poliziotta a cadere in servizio. E da quel momento, tutto cambia o almeno, così avrebbe dovuto essere.
Emanuela non aveva in mente la divisa. Dopo il diploma all’istituto magistrale sognava di diventare maestra. La vita, però, è fatta anche di deviazioni impreviste. Si iscrive al concorso in Polizia accompagnando la sorella Claudia, e ad entrare è lei. È il 1989. Viene ammessa al 119° corso alla Scuola Allievi Agenti di Trieste. Si trasferisce al nord, lontano dalla sua Sestu, con più curiosità che convinzione. Ma passo dopo passo, inizia ad appassionarsi. E, senza neanche accorgersene, quel mestiere lo fa suo.
Nel ’91 viene destinata a Palermo. È un altro mondo. Gli anni più bui della guerra tra mafia e Stato. Il clima è teso, l’aria pesante. Si stabilisce nel complesso delle Tre Torri, alloggi destinati a forze dell’ordine fuori sede. Le prime assegnazioni sono pesanti: sorveglianza all’abitazione dell’onorevole Mattarella, piantonamento al boss Francesco Madonia, protezione alla senatrice Maisano Grassi, vedova del coraggioso imprenditore Libero Grassi.
Poi arriva il passo decisivo: entra nel reparto scorte. È una delle prime donne a farlo in Italia. Non lo dice a casa. Non vuole che si preoccupino. «Andrà tutto bene», ripeteva al telefono. Dopo la strage di Capaci, quel “bene” suona più come una speranza che una certezza.

Il 19 luglio, Borsellino decide di andare a trovare la madre in via D’Amelio. Una via stretta, pericolosa, troppo esposta. Da settimane aveva chiesto la rimozione delle auto in sosta. Nessuno interviene. Alle 16:58 esplode l’autobomba. Muoiono Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano e Walter Eddie Cosina. L’unico sopravvissuto è Antonino Vullo, che stava parcheggiando. Un destino beffardo o forse solo l’ennesima falla in un sistema che, allora, non era pronto a difendere chi lo serviva.
A Sestu la notizia arriva via telegiornale. La famiglia non sapeva nemmeno che Emanuela fosse nella scorta di Borsellino. Il dolore è immenso, la rabbia anche. Ma la risposta dei familiari, soprattutto del padre Virgilio, è di un’eleganza morale fuori dal comune. «Dobbiamo ricordare», diceva. Anche malato, non mancava a una manifestazione per la legalità.
Ai funerali, lo Stato arriva in massa. Ma il Paese è furente. Urla, spintoni, “fuori la mafia dallo Stato” risuona nella cattedrale. È una rottura collettiva, il punto di non ritorno per la coscienza pubblica. Da lì in poi, nulla sarà più come prima.
Oggi, Emanuela è diventata un simbolo, ma non basta. Non può bastare una targa o un’aula scolastica con il suo nome. Il rischio è che si trasformi in un’icona muta. Perché il vero tributo è la memoria viva. Quella che educa, che interroga, che obbliga a prendere posizione. Come fa sua sorella Claudia, che da anni porta la sua storia nelle scuole.
Nel suo breve servizio, Emanuela ha scardinato stereotipi, affrontato pericoli, scelto consapevolmente di stare dalla parte giusta. Non lo ha fatto per gloria, ma per fedeltà. Alla divisa, allo Stato, al senso del dovere.
Perché raccontarla ancora? Perché raccontare Emanuela significa raccontare anche ciò che lo Stato non è stato. Significa misurarsi con una stagione in cui la mafia era sistema, e lo Stato, spesso, assente o ambiguo. Ma significa anche trovare, in quel buio, un punto di luce. Un modello. Non perfetto. Non costruito. Ma reale.
Emanuela non è un’eroina da santino. È una ragazza normale, con il sorriso aperto e lo sguardo dritto. Una di noi. Ed è proprio questo che la rende indimenticabile.









