Uno studio pubblicato su “Science Advances” e condotto da un team internazionale tra Israele e Stati Uniti ha acceso i riflettori su un dato sconcertante: un solo giorno di caldo estremo può far crollare la resa lattiera di una mucca anche del 10%. Ma il dato più interessante, e allo stesso tempo più inquietante, è che gli effetti non si esauriscono con la giornata afosa. Le mucche impiegano fino a dieci giorni per tornare a livelli produttivi normali. Dieci giorni. un’eternità se parliamo di un ciclo produttivo quotidiano e continuo.
La ricerca ha analizzato un campione di oltre 130 mila capi in Israele nell’arco di 12 anni. Israele non è stato scelto a caso: è un paese all’avanguardia nel settore lattiero-caseario, con rese elevate per capo e tecnologie avanzate già ampiamente adottate. Eppure, anche lì, il caldo ha mostrato il suo volto più spietato.
A mitigare gli effetti dello stress termico ci pensano impianti di raffreddamento, con ventilatori, doccette, nebulizzatori. Funzionano? Sì, ma con forti limitazioni. Secondo i dati, riescono a compensare al massimo il 50% della perdita produttiva. E oltre i 24 °C di temperatura “a bulbo umido” (la temperatura indicata da un termometro il cui bulbo è avvolto da un panno bagnato e che viene esposto all’aria), l’efficienza scende vertiginosamente. Inoltre, anche se i costi di installazione possono essere ammortizzati in circa 18 mesi, questo vale in contesti con accesso facilitato al credito e con margini di redditività già consolidati.
In aree più fragili — quali l’Asia meridionale o parte del Sud America — questi investimenti rischiano di essere economicamente insostenibili ed è proprio lì che il clima picchia più duro.
India, Pakistan, Brasile. Sono questi i paesi in cima alla lista delle nazioni più esposte. In assenza di tecnologie di raffreddamento, la produzione giornaliera di latte potrebbe scendere in media del 4%, ma con punte molto superiori nei giorni particolarmente critici. Anche adottando tutte le strategie disponibili, le perdite non si annullano: parliamo comunque di un calo tra l’1,5% e il 2,7% per capo, ogni giorno. E se pensiamo ad economie rurali già sotto pressione, la somma di queste piccole perdite quotidiane può diventare una voragine.
Potremmo pensare che la crisi è lontana e tocca altre nazioni, ma le cose non stanno così. Ad esempio riguarda anche eccellenze italiane come il Grana Padano DOP. Un recente studio pubblicato sull’Italian Journal of Animal Science ha analizzato l’indice bioclimatico THI (Temperature Humidity Index) nell’area di produzione del DOP (Denominazione d’Origine Protetta), evidenziando un progressivo peggioramento delle condizioni termiche dal 1970 al 2050. Un dato allarmante? Nel luglio di quest’anno, le perdite produttive potrebbero arrivare a 6-7 kg di latte, per vacca, al giorno. E, attenzione, parliamo solo dell’effetto diretto del caldo, senza considerare la riduzione della fertilità o l’aumento della mortalità estiva.
Nel frattempo, la ricerca non sta a guardare. Grazie all’approccio della “System Biology” — una metodologia che analizza le risposte degli animali integrando dati genetici, metabolici e ambientali — si stanno identificando capi più resistenti allo stress da calore. Alcune vacche, per esempio, attivano con maggiore efficacia le “Heat Shock Proteins”, proteine che proteggono le cellule dai danni termici. La selezione genetica può diventare un alleato fondamentale proprio in chiave adattiva.
Ma non è tutto. Anche l’alimentazione può essere ottimizzata: le variazioni nei livelli di zuccheri, grassi e aminoacidi, indotte dal caldo, possono essere compensate con formule nutrizionali mirate, migliorando la resilienza dell’intero sistema.
Ma il caldo non incide solo sulla quantità è anche la qualità che ne risente. La siccità impoverisce i foraggi, altera la dieta e, di conseguenza, cambia la composizione del latte. In Francia, è già stato documentato un impatto negativo sul sapore dei formaggi dovuto alla trasformazione nutrizionale del latte estivo. E se cambia il latte, cambia tutto: formaggi, burro, yogurt, panna, mozzarella. Non è solo un problema agricolo, è un problema culturale e gastronomico.
Quella che stiamo osservando non è un’anomalia temporanea ma si tratta di un segnale sistemico. La zootecnia è al tempo stesso vittima e corresponsabile del cambiamento climatico. E proprio per questo è chiamata oggi a una doppia responsabilità: ridurre l’impatto ambientale delle proprie pratiche e sviluppare modelli produttivi più resilienti.
Tecnologia, genetica, alimentazione, gestione del benessere animale: nessuna soluzione, da sola, è sufficiente. Serve una visione integrata, con il supporto concreto della politica e della ricerca scientifica, capace di trasformare la crisi climatica in un’opportunità di innovazione.
Perché, in fin dei conti, il latte — che sia bevuto fresco, versato nel caffè o trasformato in formaggio — racconta chi siamo. Quindi il modo in cui lo produciamo, oggi, può decidere molto del nostro domani.









