Per la maggior parte degli utenti, la transizione sarà quasi impercettibile. I risultati resteranno comunque pertinenti alla vostra posizione geografica, l’interfaccia sarà familiare e le funzionalità intatte. Ma dietro questa mossa si nasconde una riorganizzazione profonda del modo in cui Google gestisce la sua presenza nel mondo.
Fino a qualche anno fa, accedere a google.it o google.fr significava ottenere una versione “localizzata” del motore di ricerca, basata sul dominio specifico del Paese in cui ci si trovava. Un sistema, quello dei ccTLD (country code Top-Level Domains), che aveva senso in un’epoca in cui la tecnologia non era ancora in grado di determinare con precisione la posizione degli utenti.
Ma oggi, quel limite tecnologico non esiste più. Google sa dove siete, indipendentemente dal dominio che digitate. Basta un indirizzo IP, un dato GPS, una rete Wi-Fi, e il gioco è fatto. Il motore di ricerca riesce a personalizzare l’esperienza sulla base della posizione effettiva, non della URL. E infatti, già dal 2017, Google aveva iniziato a sganciarsi progressivamente dal sistema dei ccTLD. Oggi questa trasformazione diventa definitiva.
La promessa di Google è chiara: offrire risultati coerenti con la posizione dell’utente, ovunque si trovi, senza che sia più necessario passare per un dominio nazionale. E, a conti fatti, l’esperienza d’uso sarà persino più lineare.
Non serve più ricordarsi se si è su .com o su .it: i risultati saranno automaticamente adattati al Paese da cui si naviga. Il sistema, in teoria, funziona per tutti, in ogni lingua e per ogni Paese. Ma attenzione: questa uniformità non significa che tutto verrà standardizzato o “americanizzato”, come qualcuno potrebbe temere. Al contrario, il focus resta sulla pertinenza locale.
Una delle domande più ricorrenti riguarda le implicazioni legali e normative. Se sparisce il dominio italiano, Google sarà ancora tenuta a rispettare la legge italiana? La risposta è sì, e Google lo ha ribadito più volte. Le normative – dal diritto all’oblio alla protezione dei dati – continueranno a essere applicate sulla base della geolocalizzazione dell’utente, non del dominio utilizzato. Se navighi dall’Italia, valgono le regole italiane, punto.
Ciò che cambia, in realtà, è solo l’indirizzo nella barra del browser. Ma la sostanza, cioè i contenuti mostrati, i filtri di ricerca, le impostazioni di privacy e localizzazione, restano quelli di sempre.
Oltre alla motivazione ufficiale – migliorare la coerenza dell’esperienza utente a livello globale – c’è un’altra lettura possibile, forse meno esplicitata, ma altrettanto reale: i costi di gestione. Mantenere decine di versioni locali aggiornate, sicure e coerenti fra loro richiede risorse, personale, server, attenzione. In un’ottica di efficienza e razionalizzazione, accorpare tutto sotto un unico dominio ha senso.
In termini aziendali, potremmo definirla una strategia di consolidamento infrastrutturale. Un’ottimizzazione che alleggerisce il carico tecnologico e facilita la manutenzione del sistema nel suo complesso.
Dietro ogni cambiamento digitale si nasconde anche una componente simbolica. Per tanti utenti italiani, google.it non era solo un indirizzo: era un punto di riferimento, un’abitudine radicata, quasi un marchio di casa. E vederlo scomparire dalla barra degli indirizzi può evocare un leggero senso di perdita. Non parliamo certo di un dramma epocale, ma di un piccolo segnale che il web sta cambiando, ancora una volta, sotto i nostri occhi.
È il destino delle tecnologie: evolversi, semplificarsi, ristrutturarsi continuamente, spesso in modi silenziosi e progressivi. Un giorno ci accorgiamo che una funzionalità che usavamo ogni giorno non c’è più. E ci rendiamo conto, con un pizzico di sorpresa, che non ne abbiamo sentito la mancanza.
Possiamo dirlo senza remore: google.it va in pensione, ma l’esperienza italiana su Google resta più viva che mai. L’obiettivo è semplificare senza perdere in personalizzazione, tagliare i rami secchi senza sacrificare l’accessibilità. Se questa transizione sarà gestita senza intoppi – e per ora non ci sono segnali contrari – potremmo persino guadagnarci in termini di uniformità e chiarezza.
Per ora, il cambiamento è più simbolico che sostanziale. Ma è un’ottima occasione per ricordarci che il web non è mai statico, e che anche gli strumenti più familiari, quelli che usiamo decine di volte al giorno, possono cambiare pelle.
E forse è proprio questa la loro forza.