“Gaza muore di fame: disertiamo il silenzio” è il titolo dell’iniziativa, e non è un caso che sia nata dalla società civile e da alcune realtà religiose. Perché la pace, quella vera, non si invoca solo con i comunicati, ma si costruisce anche con i simboli. E le campane, da sempre, chiamano a raccolta, alla riflessione e alla responsabilità.
Napoli non ha bisogno di inviti per esporsi. È città di contrasti, certo, ma anche di partecipazione viscerale e di empatia concreta e lo ha dimostrato ancora una volta. Decine di parrocchie – da Scampia a Ponticelli, dal Rione Sanità a Secondigliano – hanno aderito all’appello lanciato da Pax Christi, con l’arcivescovo Don Mimmo Battaglia a guidare simbolicamente la mobilitazione; anche il Duomo ha fatto sentire i suoi rintocchi.
L’invito era chiaro: “Disertiamo il silenzio, fermiamoci, preghiamo per la pace”. Ma era anche qualcosa di più: era una dichiarazione di presenza. Perché Gaza non è lontana, non è “altro da noi“. È una questione che ci riguarda, che interroga la nostra coscienza civile, religiosa e politica.
E mentre le campane suonavano, alcune parrocchie, come quella dell’Immacolata a Capodichino, organizzavano raccolte fondi per la comunità cristiana di Gaza, concretizzando quel ponte tra fede e giustizia che, troppo spesso, rimane solo un’intenzione.
Ma non è stata solo Napoli. Da Verona a Firenze, da Milano a Trento, da Treviso a Ferrara, fino ad Andria, Santa Maria al Bagno, Ragusa e Agrigento: l’intero Paese ha risposto, un’Italia trasversale si è riconosciuta in questo gesto. A Firenze è scesa in campo anche la Curia, insieme al Comune e ai tassisti dell’Uritaxi, che hanno suonato i clacson in segno di protesta. A Treviso, si sono mobilitati il vescovo e il sindaco. A Brescia e Asiago, si è dato spazio anche a suoni informali come pentole, mestoli, sirene di barche e ambulanze.
Il segnale è stato chiaro: rompere il silenzio assordante, istituzionale, politico e mediatico. Perché ogni bomba che cade sulla Striscia, ogni cisterna d’acqua negata, ogni convoglio umanitario bloccato, è una ferita che non può più essere ignorata.
E qui, permettetemi una parentesi personale. Chi si occupa di comunicazione sa bene quanto sia difficile, oggi, costruire una narrazione condivisa su temi divisivi. Eppure, quando la partecipazione è trasversale, ed a parlare sono i rintocchi e non le polemiche, accade qualcosa di raro: si rompe lo stucchevole rituale del dibattito sterile e si entra nel campo della responsabilità collettiva.
L’iniziativa di ieri è stata promossa da Pax Christi e dal movimento “Ultimo giorno di Gaza”, con il sostegno di decine di vescovi, parroci e realtà associative. Una delle voci più autorevoli è quella di monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, il quale ha dichiarato senza mezzi termini: “Non possiamo più stare in silenzio. È giunto il momento di svegliare le coscienze”. Anche il presidente di Uncem, Marco Bussone, ha rilanciato l’appello, sottolineando la necessità di non limitarsi a dichiarazioni di facciata.
C’è una crescente consapevolezza, in alcune fasce della Chiesa italiana, che la neutralità non è più sostenibile. Come ha ricordato Papa Leone XIV: “La barbarie non risparmia nessuno. Colpisce bambini, ospedali, chiese. Dobbiamo gridare, basta!”.
Ma non tutti hanno aderito. A Bergamo, ad esempio, l’iniziativa è stata “sconsigliata” da alcuni vertici ecclesiastici per motivazioni legate alla provenienza del messaggio. Una scelta che ha lasciato spazio a un’adesione spontanea e non ufficiale: cittadini che hanno fatto rumore comunque e parrocchie che hanno suonato “in autonomia” le proprie campane. È emblematico: quando le istituzioni tentennano, la base si muove e questo, forse, è il segno più interessante dell’intera mobilitazione.
La situazione a Gaza, è bene ricordarlo, non è una crisi come le altre. È una catastrofe umanitaria aggravata da un contesto di assedio, punizioni collettive e distruzione sistematica. Le denunce delle Nazioni Unite e di organizzazioni come Amnesty International parlano chiaro: la fame è usata come strumento di guerra. Gli ospedali sono al collasso e le scuole sono distrutte. E mentre il mondo discute di geopolitica, la popolazione civile muore.
Scegliere di non restare in silenzio oggi non rappresenta soltanto un atto simbolico, ma è un atto politico. È un’affermazione di umanità.
Quando le istituzioni tacciono, quando i media edulcorano, quando i governi preferiscono l’equidistanza, allora diventa dovere di chiunque abbia un minimo di senso civico alzare la voce. Non si tratta di semplificare, né di ignorare la complessità. Si tratta di prendere posizione. E stavolta, la posizione è semplice: non si può restare neutrali davanti a un popolo che muore di fame.
Le campane, per una notte, hanno suonato fuori orario, ma forse è proprio questo quello che serve: disturbare la quiete, per ricordare a tutti che il silenzio, in certi casi, è una forma di complicità.









