A fornire il dato è la Banca d’Italia, che attribuisce la contrazione a un mix di fattori: l’introduzione della fatturazione elettronica, il rafforzamento del Sistema informativo della fiscalità (Sif) e un approccio più analitico e digitale nella gestione dei controlli.
Un cambiamento che segna un punto di discontinuità con il passato: per una volta, l’Italia non ha rincorso l’innovazione, ma l’ha anticipata.
Nel 2017 il “tax gap”, la differenza tra imposte dovute e versate, superava i 97 miliardi di euro. Oggi si attesta intorno ai 72 miliardi, con una propensione all’evasione scesa dal 21% al 15% del gettito teorico. Numeri che raccontano una riduzione strutturale e non episodica.
Secondo Bankitalia, il merito va alla progressiva digitalizzazione del sistema e al consolidamento degli strumenti di controllo automatico. La trasmissione telematica dei corrispettivi e la fatturazione elettronica hanno reso più difficile l’occultamento dei ricavi e più efficiente il monitoraggio dei flussi. È la tecnologia che, finalmente, diventa infrastruttura di legalità.
Quando nel 2019 è scattato l’obbligo della e-fattura, molte imprese l’hanno vissuto come un peso burocratico. Oggi è chiaro che quella misura ha innescato una rivoluzione silenziosa. Il Sistema di Interscambio (SdI) dell’Agenzia delle Entrate, attraverso cui transitano tutte le fatture, è diventato un hub informativo in grado di incrociare miliardi di dati in tempo reale.
Il direttore dell’Agenzia, Vincenzo Carbone, ha stimato che l’e-fattura generi ogni anno un effetto di “compliance/conformità spontanea” tra 1,7 e 2 miliardi di euro, a cui si aggiunge l’impatto del meccanismo di split payment, responsabile di un recupero complessivo di 4,6 miliardi. Più che un semplice strumento tecnico, la e-fattura ha rappresentato un cambio di mentalità: da obbligo percepito come coercitivo a opportunità di semplificazione, tracciabilità e trasparenza.
Lo split payment, che separa l’Iva tra fornitore e Pubblica Amministrazione, ha garantito flussi certi e immediati all’Erario, riducendo drasticamente i mancati versamenti. Ma il vero valore del modello italiano è l’equilibrio tra controllo e collaborazione. In un Paese come l’Italia, dove l’evasione è stata a lungo considerata quasi una difesa contro la complessità fiscale, la digitalizzazione ha introdotto una nuova grammatica del rapporto tra fisco e contribuente: meno carta, più dati, meno sospetto, più trasparenza.
Accanto alla digitalizzazione, la vera sfida del presente è l’intelligenza artificiale applicata al sistema fiscale. Non esistono, come ha ricordato Carbone, “algoritmi antievasione” in grado di sostituire l’uomo. Esistono, però, modelli predittivi capaci di analizzare enormi quantità di dati e individuare comportamenti anomali. L’AI consente di leggere e interpretare automaticamente documenti, incrociare flussi informativi e costruire profili di rischio fiscale più precisi. Ma, come evidente, resta un supporto pre-istruttorio: la decisione finale è sempre umana, nel rispetto del contraddittorio e dei diritti dei contribuenti.
Un equilibrio delicato, che impone regole chiare di governance dei dati, trasparenza algoritmica e supervisione costante.
Nonostante i progressi, il gap Iva italiano resta tra i più alti dell’Unione: circa 14,6 miliardi di euro secondo le stime al 2022. Tuttavia, nessun altro grande Paese ha dimezzato il proprio divario in così poco tempo. Oggi il “modello italiano” – fatto di SdI, e-fattura e split payment, è studiato a Bruxelles come riferimento per il progetto europeo “VAT in the Digital Age (ViDA)”, che mira a estendere la fatturazione elettronica in tutti gli Stati membri. In altre parole, siamo passati da laboratorio di inefficienza a best practice continentale. E questo, per l’Italia, non è poco.
La trasformazione ha avuto ricadute tangibili. Per le imprese, l’obbligo di emissione digitale ha ridotto costi e tempi di gestione, favorendo l’automazione dei processi contabili e la pianificazione finanziaria. Per la Pubblica Amministrazione, la disponibilità immediata dei dati ha migliorato la capacità di controllo e la tempestività delle verifiche. Per i contribuenti onesti, la prospettiva di un sistema più equo e meno invadente.
La prossima frontiera sarà l’integrazione tra banche dati fiscali, doganali e finanziarie, per affinare ulteriormente le analisi di rischio e ridurre il gap residuo sotto i 10 miliardi entro pochi anni.
Ogni progresso tecnologico porta con sé un rischio di squilibrio. La crescente interoperabilità dei dati fiscali apre questioni cruciali su privacy, sicurezza e tutela dei diritti. L’ipotesi di consentire all’amministrazione l’accesso diretto ai conti correnti, finora respinta, mostra quanto sia sottile il confine tra efficienza e invasività. La vera chiave, anche qui, è la fiducia: solo un uso etico, trasparente e proporzionato della tecnologia potrà consolidare il rapporto tra cittadini e Stato.
Il successo della digitalizzazione fiscale non si misura solo nei miliardi recuperati, ma nel cambio culturale che innesca. Quando la trasparenza diventa routine e la tecnologia serve a semplificare, non a sorvegliare, allora anche l’idea di fisco cambia volto. L’Italia, con tutte le sue contraddizioni, ha dimostrato che innovare si può. Ora serve la fase due: trasformare la tecnologia in fiducia e, la fiducia in crescita.
Un passo alla volta, ma nella direzione giusta.









