Una di queste è quella del Dubai Chocolate, una barretta al cioccolato al latte, pistacchio, tahina e kataifi che ha travolto social network, supermercati e addetti ai lavori. Un dolce, certo, ma anche un fenomeno culturale. E qui il termine “fenomeno” non è una concessione al sensazionalismo giornalistico, bensì un’etichetta calzante per qualcosa che ha ridefinito il concetto stesso di dessert.
Era il 2021, Sarah Hamouda – imprenditrice britannico – egiziana con base a Dubai – stava attraversando una gravidanza come tante, con l’unica differenza che da quel mix di ormoni e desideri dolci nacque un’idea destinata a diventare virale. Mescolando suggestioni culturali e ingredienti simbolici della pasticceria araba, creò la sua personale reinterpretazione del knafeh, dolce tradizionale mediorientale a base di formaggio e pasta kataifi. Solo che, al posto della teglia da condividere in famiglia, Hamouda impacchettò tutto in una barretta: Can’t get Knafeh of it. Un gioco di parole irresistibile per il pubblico anglofono, che accosta lo slogan a “can’t get enough of it”.
Quel naming, apparentemente frivolo, è stato in realtà una mossa strategica che aveva già in sé tutti gli ingredienti – non solo alimentari – per diventare virale.
Ma il contenuto non era da meno del contenitore. Il cioccolato al latte come base, pistacchi interi per texture e aroma, pasta kataifi croccante e una delicata crema alla tahina a legare il tutto. La ricetta è studiata al dettaglio, e come spesso accade nei prodotti di successo, è più semplice di quanto sembri. Ma dietro quella semplicità si cela un’efficace operazione di “sensory branding”, sapori familiari ma esotici, consistenze contrastanti, packaging curato e un prezzo premium – 25 dollari a barretta – che suggerisce esclusività prima ancora del primo morso.
Il risultato? Una tempesta perfetta. E l’effetto valanga è arrivato puntuale con la spinta dei social.
Nel 2022, la Hamouda investe pesantemente in comunicazione: influencer marketing, contenuti visual altamente curati, limited edition e storytelling emozionale. Il prodotto diventa simbolo di uno stile di vita. Ma non è solo questo. La scarsità programmata, combinata con una distribuzione selettiva, innesca la più potente delle leve psicologiche: la “Fear of Missing Out”. Il desiderio non nasce più dal bisogno, ma dalla difficoltà a possedere. È il meccanismo che trasforma un semplice dolce in un “status symbol”.
Ed è proprio in quel momento che il Dubai Chocolate smette di essere solo una barretta e diventa uno statement culturale. Il cibo come espressione di identità, come voce nel rumore del feed.
Dietro il glamour, però, ci sono anche effetti collaterali. Il boom della domanda ha avuto ripercussioni tangibili sull’intero comparto del pistacchio. Già messo in difficoltà da raccolti magri e da eventi climatici estremi, il mercato statunitense – ed in particolare quello californiano, che da solo rappresenta oltre il 50% della produzione mondiale – ha visto i prezzi impennarsi del 26% in due anni, passando da 7,65 a 10,30 dollari a libbra.
Nel frattempo, le aziende dolciarie hanno cominciato ad accaparrarsi stock futuri, spingendo le scorte in zona rossa: tra febbraio 2024 e febbraio 2025, le riserve sono crollate del 20%. Una dinamica simile a quella vista durante la pandemia con altri beni ad alta richiesta. In pratica, il pistacchio è diventato il nuovo oro verde.
Ma mentre la California fatica, l’Iran cavalca l’onda. Le esportazioni di pistacchi iraniani verso gli Emirati Arabi Uniti sono aumentate del 40% tra ottobre 2024 e marzo 2025. E non è difficile intuire il perché: Dubai è l’epicentro del fenomeno, e la Fix Dessert Chocolatier di Hamouda ha fame – nel senso più letterale – di materia prima.
Un paradosso interessante, se si considera che spesso è la tecnologia ad alimentare nuove dinamiche geopolitiche. In questo caso, invece, è stata una barretta di cioccolato.
Il successo non è passato inosservato nemmeno ai colossi del cioccolato. Lindt, tra i primi a replicare il format, ha lanciato la sua versione “luxury” con pistacchi e spezie orientali. E lo stesso Ernst Knam, il “re del cioccolato”, ha rilasciato una sua interpretazione gourmet. Il punto, però, non è solo replicare la ricetta, ma replicarne il valore simbolico. E quello, come sanno bene i marketer, è infinitamente più difficile da ottenere.
Ciò che resta, alla fine, è un caso emblematico. Una barretta che ha ridisegnato i confini tra prodotto e narrazione, tra desiderio e disponibilità. Il Dubai Chocolate è l’esempio plastico di come oggi si consumi prima con gli occhi e il cuore, e solo dopo con il palato. È un richiamo continuo alla spettacolarizzazione del quotidiano, dove anche un dessert può diventare metafora di status, inclusione, appartenenza.
E mentre scrivo, mi domando quanti altri “banali” prodotti stiano aspettando il loro momento virale. Perché nel 2025, anche un morso può cambiare le regole del gioco.
Ed ora mi scuso, ma vado a cercare qualche pistacchio, prima che finisca anche l’ultimo.