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17 Maggio 2025
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Perché abbiamo bisogno di buone notizie

Succede ogni mattina: accendi il telefono, scorri le prime notizie e vieni travolto da un’ondata di negatività. Guerre, catastrofi, scandali, crisi economiche. Non è solo una sensazione passeggera: è un bombardamento sistematico che plasma l’umore e la percezione del mondo. Secondo una recente indagine di AstraRicerche, otto italiani su dieci sentono la necessità di ricevere più notizie positive. Una fame – anzi, una sete – di luce in mezzo al buio costante, e non è una fuga dalla realtà: è un meccanismo di autodifesa psicologica.

Perché ci colpiscono tanto le notizie negative? Perché fanno audience. Il cervello umano è programmato per individuare i pericoli prima delle opportunità – un residuo ancestrale della nostra evoluzione. Ma nel mondo iper-connesso di oggi, questo istinto si traduce in un “negativity bias” che viene esasperato dai media. Risultato? Ansia, stress, senso di impotenza. La cronaca nera incide sull’umore più di ogni altro tipo di contenuto, mentre le buone notizie, quando compaiono, sembrano un diversivo esotico. Eppure sono proprio quelle a ridarci fiato.

No, non è vero che le buone notizie non interessano. Il problema sta nel come vengono raccontate. Se trattate come “riempitivi”, perdono di efficacia. Ma se inquadrate con uno storytelling avvincente, sono capaci di generare engagement, condivisioni e un effetto domino positivo. L’esempio del “giornalismo costruttivo” – sempre più adottato a livello internazionale – dimostra che si può fare informazione seria e approfondita anche raccontando soluzioni, progresso, atti di gentilezza. Anzi, si deve!

La dopamina non mente, quando leggiamo una buona notizia, il nostro cervello rilascia neurotrasmettitori che stimolano empatia, gratitudine, ottimismo. Non è magia, è fisiologia. E in un’epoca segnata da crisi multiple – ambientali, geopolitiche, sociali – questo tipo di stimolo diventa fondamentale per non cadere nella paralisi emotiva. Non si tratta di “vedere tutto rosa”, ma di non arrendersi al grigio perenne. Perché il pessimismo cronico non ci rende più lucidi, ci rende più inerti.

Ti è mai capitato di commuoverti per una notizia che raccontava un gesto semplice ma straordinario? Un insegnante che compra libri ai suoi alunni, un medico che resta in reparto a dormire per curare tutti. Queste storie funzionano perché rompono il pattern, ci sorprendono e ci ricordano che il bene esiste, agisce e resiste. Non servono effetti speciali: serve autenticità, concretezza, una narrazione che metta al centro l’essere umano.

L’indagine “Un mondo più buono”, commissionata da Mulino Bianco, è illuminante. Quasi il 40% degli italiani dichiara che le notizie negative influiscono direttamente sul proprio stato d’animo, mentre il 63% afferma che una buona notizia può migliorare sensibilmente la giornata. Più interessante ancora è l’analisi dei contenuti desiderati: nel 2024, il 22,4% degli italiani sperava di leggere notizie legate a un miglioramento della propria situazione economica, mentre il 17,9% auspicava notizie positive legate alla salute, propria o dei propri cari. Ma il desiderio universale era ed ancora è così, il cessare delle guerre, citato da oltre 4 italiani su 10. Una richiesta, più che un auspicio.

La fascia oraria privilegiata per informarsi è il mattino. Il momento in cui – guarda caso – impostiamo l’umore della giornata. Ecco perché è strategico (anche per chi fa comunicazione e marketing) scegliere con cura cosa veicolare in quella fascia. I canali di comunicazione? Senza alcun dubbio Internet, che in tal senso non ha rivali: siti web, portali editoriali, ma anche social network, sono la prima scelta per il 41,4% degli italiani. La televisione, un tempo dominante, oggi è in netto calo. Ma attenzione: più che il mezzo, conta la qualità del messaggio.

Non possiamo delegare tutto ai media. Anche le aziende, i brand e i cittadini hanno un ruolo. Le campagne promozionali, come “C’è un mondo più buono” non devono restare iniziative isolate, ma diventare benchmark di comunicazione empatica, coerente e responsabile. I brand oggi non vendono solo prodotti, ma valori. E i valori si raccontano anche scegliendo cosa condividere. È qui che la content strategy si fa etica.

Coltivare l’abitudine al buono non è un vezzo da ottimisti. È una scelta strategica, culturale, umana. Significa educare l’occhio a vedere ciò che funziona, nonostante tutto. E, magari, contribuire anche solo in minima parte a farlo accadere più spesso. Le buone notizie non servono solo a sentirsi meglio: servono a ricordarci che cambiare le cose, un pezzetto alla volta, è possibile, anzi è necessario!

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