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14 Giugno 2025
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Cacio e pepe senza grumi? La fisica ci dà una mano (anzi due). Quando la scienza si siede a tavola

La cacio e pepe è un paradosso culinario: pochissimi ingredienti, massima difficoltà. Due, tre passaggi eppure, se sbagli un solo dettaglio, ti ritrovi con una crema che più che vellutata sembra un esperimento mal riuscito. È la tipica “ricetta tradizionale” che tutti pensano di saper fare — finché non provano davvero. Eppure, a venirci in soccorso stavolta non è un cuoco stellato, ma un team di fisici italiani, espatriati e un po’ nostalgici, che ha deciso di studiare la cacio e pepe con il rigore di un’equazione.

Sì, proprio così: un gruppo di ricercatori che lavora tra Barcellona, Dresda, Padova e l’Austria ha pubblicato uno studio su Physics of Fluids per spiegare, con metodo scientifico, come evitare i temuti grumi nel condimento. Un’analisi che non si limita a un vezzo accademico, ma che si traduce in una vera e propria ricetta, pensata per tutti quelli che, almeno una volta, hanno “imprecato” davanti a un pecorino che si separa invece di amalgamarsi.

Tutto è partito da un’esperienza comune a molti: una cena tra amici italiani all’estero. La voglia di sentirsi a casa, un pacco di pasta portato da Roma, una forma di pecorino romano che viaggia in valigia come un tesoro, e l’inevitabile desiderio di cucinare un piatto che sa di Trastevere. Solo che a un certo punto, uno di loro — Ivan Di Terlizzi, del Max Planck Institute per la Fisica dei Sistemi Complessi — ha avuto un’intuizione: e se la cacio e pepe, oltre ad essere buona, fosse anche un interessante caso di studio fisico?

Non una boutade tra colleghi, ma l’inizio di un’indagine che ha messo sotto la lente i meccanismi termodinamici e colloidali alla base della miscelazione tra formaggio e acqua. Perché il punto è proprio lì: il formaggio e l’acqua non si amano per nulla. Ma se li conosci bene, puoi farli andare d’accordo.

Il primo punto critico è il ruolo dell’amido. Non è un semplice residuo dell’acqua di cottura, ma un vero e proprio stabilizzante. In condizioni normali, il formaggio — che contiene grassi e proteine — tende a separarsi dall’acqua, formando quei grumi fastidiosi che rovinano tutto. L’amido, invece, crea un legame tra le molecole idrofile e quelle idrofobe, facilitando la formazione di un’emulsione stabile.

I test del team hanno mostrato che una concentrazione di amido tra il 2 e il 3% rispetto alla massa del formaggio è ideale per ottenere una salsa liscia e uniforme. Attenzione: non si parla di “un po’ d’acqua di cottura” a occhio, ma di dosi precise, misurate. Da laboratorio, appunto.

Seconda variabile fondamentale è la temperatura. Se si esagera col calore, le proteine del pecorino si denaturano, si agglutinano e il risultato è una massa informe che ha poco a che vedere con l’idea di una crema vellutata. L’intuizione dei fisici è che la temperatura dell’acqua, al momento in cui si aggiunge il formaggio, debba essere più bassa del previsto — attorno ai 55-60°C — e che l’intero processo di riscaldamento debba avvenire in modo dolce e progressivo.

In parole povere: niente padelle roventi, niente pasta bollente direttamente nella ciotola con il formaggio. Bisogna raffreddare l’acqua, mescolare con calma, e scaldare a bagnomaria se serve. Un approccio quasi zen, più da laboratorio che da trattoria. Ma funziona!

Ecco un approccio pratico, basato sui risultati dello studio:

  1. Cuoci la pasta al dente in abbondante acqua non troppo salata.
  2. Conserva una buona quantità di acqua di cottura, soprattutto quella finale, più ricca di amido.
  3. Lasciala raffreddare fino a circa 55-60°C.
  4. Aggiungi amido di mais o patate (1-2 cucchiaini per 100g di formaggio, per arrivare al fatidico 2-3%).
  5. Versa il pecorino romano DOP, grattugiato finemente, a pioggia, mescolando con una frusta.
  6. Riscalda dolcemente fino a ottenere una salsa liscia e omogenea.
  7. Condisci la pasta, aggiungi pepe nero macinato al momento e mescola fino ad avvolgere ogni singolo spaghetto.

La bellezza di questa storia non è solo nel risultato gastronomico, ma nel metodo. È un esempio perfetto di come il rigore scientifico possa incontrare la tradizione e aiutarci a comprenderla meglio. Troppo spesso si pensa alla cucina come a un’arte “intuitiva”, ma quando l’intuizione non basta, servono strumenti e conoscenza. E forse proprio la cacio e pepe, piatto tanto amato quanto traditore, meritava questo tipo di attenzione.

Abbiamo provato questa tecnica. Ben due volte. La prima volta è stata una mezza vittoria, la seconda un piccolo trionfo. E no, non abbiamo usato strumenti da laboratorio, ma ne abbiamo rispettato i principi: proporzioni, temperatura e pazienza. E questo basta.

Quindi, la prossima volta che preparate una cacio e pepe, fermatevi un attimo. Pensate a quegli italiani all’estero, alla fisica dei fluidi, e al fatto che dietro ogni grumo evitato c’è un piccolo gesto d’amore per la cucina italiana. Perché sì, anche il rigore scientifico può essere profondamente umano.

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