Non è stato solo un evento politico (nel senso più alto del termine), ma un episodio collettivo di consapevolezza. Uno di quei momenti in cui la società civile prende il sopravvento sulla retorica istituzionale e, marciando, mette in discussione il silenzio colpevole delle cancellerie occidentali.
La mobilitazione che ha percorso la capitale ha fatto numeri importanti. E non è la solita iperbole da palco. Gli organizzatori parlano di oltre 300.000 persone, le stime della Questura sono più caute, ma concordano su un dato: una partecipazione fuori scala cui non si assisteva da tempo. Difficile persino camminare tra via Emanuele Filiberto e la basilica di San Giovanni, tanto era densa la folla. Bandiere della pace, keffieh, striscioni, una moltitudine pacifica ma determinata, nella quale la parola “umanità” è stata probabilmente la più pronunciata.
Il corteo è partito da Piazza Vittorio ed ha attraversato il centro storico, senza incidenti, in un clima di tensione emotiva, si, ma assolutamente civile. L’organizzazione, dal punto di vista logistico e della sicurezza, è stata impeccabile.
Dietro lo striscione d’apertura, c’erano i leader del fronte progressista: Schlein (PD), Conte (M5S), Bonelli e Fratoianni (AVS). Uniti per Gaza, ma consapevoli delle divergenze strategiche che ancora impediscono una coalizione elettorale compatta. Eppure, la foto che li ritrae insieme ha già fatto il giro del web. Per alcuni è solo una tregua temporanea, per altri un segnale. Di certo è stata una risposta politica concreta al “non schierarsi” del governo in carica.
Massimo D’Alema, come sempre tagliente, ha detto: “Se il centrosinistra fosse stato unito, avrebbe vinto anche le ultime elezioni. Sarebbe un crimine ripetere quell’errore”. Difficile dargli torto, almeno su questo punto!
Un palco composito, eterogeneo, con interventi che hanno toccato corde differenti ma convergenti. Dalla giornalista palestinese Rula Jebreal, che ha parlato apertamente di “genocidio”, al giovane obiettore di coscienza israeliano Iddo Elam, incarcerato per aver rifiutato il servizio militare. Il medico Feroze Sidhwa ha raccontato con crudezza la devastazione ospedaliera a Gaza, mentre Gad Lerner ha cercato di scardinare l’equazione “critica a Israele = antisemitismo” con una delle frasi più potenti della giornata: “Sono un sionista, ma oggi Israele va salvata da se stessa”.
Non è mancata la cultura: Paolo Fresu ha aperto e chiuso la manifestazione con la sua tromba, intonando “Bella ciao” tra lacrime e applausi. Un’istantanea difficilmente dimenticabile.
La mozione unitaria alla base della mobilitazione è chiara nei suoi obiettivi:
- Sospensione immediata del memorandum militare Italia-Israele;
- Embargo totale di armamenti verso Israele;
- Riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del governo italiano;
- Cessate il fuoco permanente e accesso agli aiuti umanitari.
A queste si aggiungono le richieste già avanzate da diversi stati membri dell’UE. La Francia e la Spagna, ad esempio, hanno già espresso la volontà di riconoscere lo Stato palestinese. L’Italia, invece, continua a mantenere una posizione ambigua, talvolta silente, talvolta retorica, ma sostanzialmente immobile.
Non tutto è stato rose e fiori. Il Movimento degli Studenti Palestinesi ha definito la manifestazione “tardiva e opportunistica”, criticando la partecipazione di forze politiche che, in passato, hanno sostenuto l’export militare verso Israele. Alcune sigle dell’estrema sinistra hanno contestato dal percorso, gridando al compromesso elettorale.
Assenti? I soliti noti, Calenda e Renzi. Il primo aveva chiesto una condanna esplicita di Hamas per aderire. Il secondo ha parlato di “populismo morale”. Ma la piazza ha risposto indirettamente: non si può restare equidistanti davanti a 60mila morti.
Questa manifestazione resterà, almeno per un po’, nella memoria collettiva. Perché è stata coraggiosa, partecipata, emotivamente densa. Perché ha avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, anche a costo di urtare sensibilità e rompere equilibri diplomatici.
Se l’Europa vuole davvero ambire a essere una potenza morale, oltre che economica, deve ascoltare le sue piazze. E se l’Italia vuole ritrovare una centralità diplomatica, deve abbandonare la sua postura titubante e riscoprire il suo passato di mediazione ed equilibrio.
Perché oggi, più che mai, Gaza è diventata uno specchio. E quello che ci riflette è una domanda scomoda: da che parte della storia vogliamo stare?