Dire addio significa spegnere tutte le tue luci che avevi allestito in un luogo, quelle che ti avevano richiesto tempo e sforzo, che avevi seminato in giro e cucito addosso alle persone di cui avevi deciso di fidarti e ai luoghi in cui avevi creato ricordi indimenticabili.
Spegnerle per riaccenderle altrove. Un lavoro impegnativo. Attraversare quella luce per un’ultima volta e decidere di illuminarti in altri luoghi. Lasciare che chi ti sta lontano ne possa ora solo ricevere un lontano raggio di quell’energia che emanavi e che invadeva la vostra quotidianità.
E così si sceglie di illuminare altre strade, altri visi, altri occhi
L’addio ai luoghi
Essere nomadi significa vivere in tanti luoghi diversi, significa chiamare casa ogni anno qualcosa di diverso, ma amarli tutti e apprezzarli tutti allo stesso tempo, cogliendo le note positive in ognuno di loro. Eppure se c’è qualcosa di cui pochi parlano è ciò con cui si devono spesso confrontare le persone in espatrio. Gli addii, una quantità di addii che è nettamente superiore alla media degli addii che toccano a una persona con una vita stabile.
Accade dunque spesso che in queste situazioni si possa tendere a vivere con una data di scadenza. Si tenta di calibrare sentimenti e coinvolgimento proprio tenendo in conto il fatto che la relazione, quantomeno quella fisica, che include la presenza costante e condivisa, prima o poi cesserà e non tornerà ad essere mai più quella di una volta.
Il che può portare a due reazioni diverse, o si decide di vivere tutto più intensamente e a pieno, godendone fino all’ultima goccia. O a vivere tutto in maniera anestetizzata, come se si volesse attutire emozioni che non devono né possono essere troppo forti.
Chiudere con quel paese significa però non solo separarsi da persone care, ma anche dire addio ad una routine. Significa chiudere un capitolo della propria vita per iniziarne un altro, senza poter mai più tornare indietro. Congedarsi da abitudini, strade e paesaggi che si amano, e nei quali ci si trova bene, può essere devastante.
Ciò che appartiene al passato, ci apparterrà per sempre. Eppure ripercorrere le strade di una nostra vita passata, con occhi nuovi e diversi, non ci darà mai più la stessa sensazione di un tempo. E questa è forse una consapevolezza che arriva solo dopo.
Chiudere con un paese significa anche chiudere con quella parte della nostra identità che si è formata attorno ad esso. Ogni luogo e persona connessa a lui, ha conosciuto un noi diverso o diversa. E ciò dipende dal clima, dalle abitudini, dalle persone che incontriamo, dal nostro atteggiamento verso la vita in quel momento preciso, dalla nostra età, queste variabili determinano la nostra percezione del mondo in un determinato momento della nostra vita. Anche la nostra disponibilità a metterci più o meno in gioco avrà un certo ruolo.
Il linguaggio gioca un ruolo fondamentale, è un codice per vedere e leggere il mondo attorno a noi. E dentro di noi. C’è una teoria per la quale ogni volta che cambiamo lingua e ne parliamo una che non è quella nostra nativa, cambiamo assieme anche personalità. Come i camaleonti, al cambiare lingua, ci trasformiamo e cambiamo anche atteggiamento
Questa teoria, è conosciuta come l’ipotesi di Sapir-Whorf, anche chiamata relatività linguistica, secondo cui la lingua che parliamo influenza e determina la nostra percezione del mondo e il modo in cui parliamo. Anche le strutture linguistiche peculiari di una lingua o i modi di dire o la cultura del paese in cui si parla la lingua possono avere effetti su di noi, facendoci essere per esempio più o meno socievoli, più o meno conservatori e così via. Questo significherebbe dunque che lingue diverse ci spingerebbero a comprendere e categorizzare il mondo diversamente. Dunque l’ennesimo indizio che ci indica che la lingua influenzando la nostra percezione di eventi o esperienze, non è solo strumento di comunicazione ma strumento che ha effetti sulla nostra mente e il nostro modo di cogliere gli eventi attorno a noi.
L’addio alle persone
Ci sono momenti della vita che finiscono e altri che ricominciano. Ci sono persone che ti salutano e ti stringono e sanno che mai più ti rivivranno allo stesso modo, non conosceranno mai quella te che avevano incontrato per la prima volta. Soffrono anche loro perché lo sanno bene che nulla sarà mai più come prima.
È difficile trovare il punto fermo. E per punto fermo si intende una costante. Una persona che resta, a prescindere. A prescindere dal luogo, dalla distanza, dalle situazioni, dai nostri cambiamenti, dai problemi o dalle gioie. Significa qualcuno che decide di accettare tutte quelle versioni di noi. Serve pazienza, empatia, volontà e curiosità. Significa rinnovarne quotidianamente il rapporto. Serve passione, serve dedizione, pazienza, serve entusiasmo. E ne serve ancor di più se la persona è così dinamica e mutevole, cambia spesso luogo in cui abitare e così amicizie, abitudini e lingua in cui comunicare.
Ognuno di noi ha almeno un’amicizia, un amore, improvvisamente finito. Su cui non ci è dato sapere altro. Tradizionalmente, si è sempre sostenuto che l’amore non si chiede e a volte è semplicemente in quelle assenze che sono scritte tutte le risposte. In questo contesto, l’invito non è tanto quello di perdonare, quanto piuttosto di lasciar andare. Sciogliere le catene emotive che legano a una persona permette di proseguire il cammino con maggiore leggerezza e libertà interiore.
Non si può pretendere che gli altri agiscano secondo le proprie aspettative; allo stesso tempo, è fondamentale evitare che le loro azioni, o le loro mancanze, influenzino il nostro stato d’animo, l’unico su cui abbiamo reale controllo. Liberarsi da un peso autoimposto consente di vivere con maggiore coscienza, certi di aver fatto tutto il possibile. È un risveglio interiore: si smette di attendere passivamente, si diventa padroni e artefici delle proprie emozioni e si riprendono in mano le redini della propria vita.
Ognuno percorrendo il proprio cammino.