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10 Maggio 2025
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Leone XIV: il nuovo Papa è americano, ma nel modo giusto

A freddo e a caldo, nello stesso momento! Quando dalla loggia è risuonato il nome di Robert Francis Prevost, una scossa ci ha attraversati. Il primo Papa americano della storia. In piena era Trump. Non era quello che ci aspettavamo, e neppure quello che avevamo immaginato. Anzi. Per molti – lo confesso, per me compreso – il pensiero è corso a quel famigerato assegno da 14 milioni di dollari attribuito al presidente statunitense, e a un tentativo goffo e arrogante di piegare anche il Conclave alla logica delle superpotenze. Ma poi, basta fermarsi. Ascoltare. Guardare con attenzione. E la narrazione si incrina.

No, Robert Francis Prevost non è l’americano che fa paura.
Anzi, è probabilmente l’americano meno americano del Collegio cardinalizio. Molto più sud che nord. Più missione che istituzione. Più ascolto che potere.

D’accordo, sul documento di riconoscimento c’è scritto che è nato a Chicago. Ma fermarsi al dato anagrafico, in questo caso, è una scorciatoia intellettuale che rischia di farci perdere la sostanza. Prevost è stato per quindici anni missionario in Perù. Ha camminato tra le comunità andine, ha celebrato messa in spagnolo molto prima di parlare da una loggia vaticana. Ha diretto l’Ordine degli Agostiniani a livello mondiale, consolidando legami forti con l’America Latina e con quei territori dove la Chiesa vive ancora come presenza viva, incarnata, fragile ma autentica.

Nel suo primo discorso, non a caso, ha voluto includere un passaggio in spagnolo. E non per ragioni diplomatiche, ma identitarie. “Soy vuestro hermano,” ha detto. Ed è stato il momenti in cui ho pensato: forse siamo davvero davanti a qualcosa di nuovo.

La scelta del nome papale è sempre un segnale. E Robert Francis Prevost ha scelto un nome pesante: Leone. Come Leone XIII, autore della Rerum Novarum, la prima grande enciclica sociale della Chiesa, che mise al centro la dignità del lavoro, la giustizia distributiva, la tutela degli ultimi. Una dottrina che, ancora oggi, rappresenta la base di ogni riflessione cattolica su economia e politica. Ma Leone è anche il nome di frate Leone, l’amico silenzioso e fedele di Francesco d’Assisi. Un richiamo chiaro, quasi dichiarato, a Papa Francesco.

Due richiami, dunque. Uno al cuore della dottrina sociale della Chiesa. L’altro al cuore dell’umanità di una Chiesa che vuole ancora “abitare le periferie”, come ci ha insegnato Jorge Mario Bergoglio. E, se questi due riferimenti restano le linee guida reali del suo pontificato, beh allora possiamo aspettarci una continuità – forse più prudente, certo più sobria – ma non meno incisiva.

Tornando al contesto: inutile negarlo, questo Conclave è stato più osservato che vissuto. Lo spettro di un’elezione “politica” aleggiava su ogni discussione, complice anche un clima internazionale segnato da guerre, tensioni ideologiche, e una crescente sfiducia verso le istituzioni. Eppure il risultato, almeno in apparenza, sembra essere andato in un’altra direzione.

La scelta di Robert Francis Prevost smentisce in parte le attese ed infrange i pronostici. Non è Zuppi, certo. Ma non è neanche Parolin. Non è italiano, e già questo sposta l’asse. Ma non è nemmeno “l’americano degli americani”. È uno che cammina sul crinale, cercando equilibri senza perdere profondità. Moderato? Forse sì. Ma non nel senso della neutralità. Moderato perché radicato.

Nei primi tre minuti dalla loggia, Prevost ha citato Papa Francesco due volte. Non è un dettaglio secondario. È il segnale di una linea che non vuole tagliare con il passato recente, ma semmai declinarlo con un altro tono. Meno gesti clamorosi, forse. Meno “choc” mediatici. Ma con una direzione che resta chiara: apertura, dialogo, inclusione. Anche se con toni più misurati, da uomo di Curia, con una visione più diplomatica che profetica. Ma la sostanza, per ora, sembra reggere.

C’è un termine che ha risuonato più di tutti nel suo discorso inaugurale: “pace”. Ben undici volte. Ma non una pace teorica, da convegno mediatico. Una pace “disarmata e disarmante”, come ha detto lui stesso. Umile, perseverante. Una pace che non si impone con la forza, ma si offre come testimonianza. In un mondo che si arma e si polarizza, questo suona come un atto quasi rivoluzionario. E forse, in questo momento storico, è la rivoluzione più necessaria.

Sì, lo ammetto: con gli Stati Uniti ho un rapporto complicato. Non mi piace la loro retorica imperialista, né l’ossessione per le armi, né quella cultura che spesso pretende di esportare la democrazia col fucile in mano. Ma poi penso a Steinbeck, a Dickinson, a Dylan e capisco che dietro ogni bandiera c’è un’umanità da ascoltare.

Robert Francis Prevost è americano? Sì, certo. Ma nel senso più largo – e meno ideologico – del termine. Ed è questo che conta, non il paese di nascita, ma la visione, non il passaporto, ma il percorso. E se davvero sarà un Papa capace di costruire ponti più che muri o barriere, allora possiamo permetterci di sperare.

Non so ancora chi sarà davvero Leone XIV. Ma so che in un mondo che divora tutto alla velocità di uno scroll, un uomo che ripete undici volte la parola “pace” merita almeno di essere ascoltato. Forse non era il Papa che volevamo, ma potrebbe rivelarsi il Papa di cui avevamo bisogno.

Il tempo, come sempre, farà il resto.

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Carlo Di Somma
Carlo Di Sommahttps://www.digipackline.it/
Nato a Napoli, sono un professionista SEO curioso e creativo. Con la passione per l’innovazione digitale, trasformo le sfide in opportunità grazie a strategie efficaci e soluzioni innovative. Sono alla costante ricerca di nuove conoscenze e mi considero un "eterno studente".

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