Viviamo nell’epoca del tracciamento perpetuo. Il nostro numero di telefono, un tempo personale quanto l’indirizzo di casa, è oggi parte di un ecosistema digitale in cui i dati viaggiano, si scambiano, si vendono. Un mercato nero parallelo, fatto di database venduti a pacchetti da 10.000 utenze a qualche migliaio di euro, alimenta quotidianamente l’assalto telefonico che subiamo. E a fronte di oltre 78 milioni di numeri mobili e 20 milioni di fissi coinvolti, non è affatto un fenomeno marginale.
Eppure, a ben guardare, il punto non è solo la quantità. È l’impotenza, la sensazione che nessuna misura funzioni davvero. Perché no, non basta iscriversi al Registro Pubblico delle Opposizioni (RPO) per ritrovare la pace.
Il termine tecnico è “spoofing”, e rappresenta la vera chiave di volta per capire perché le soluzioni attuali falliscono. Attraverso lo spoofing, chi effettua la chiamata falsifica il numero che appare sul nostro schermo. Risultato? Ci arriva una telefonata da un numero apparentemente italiano, magari anche “familiare” per prefisso, che però nulla ha a che vedere con chi chiama davvero.
Questo trucco permette di aggirare ogni forma di blocco basata sul riconoscimento del numero. E rende inutile perfino la blacklist che molti di noi compilano meticolosamente sullo smartphone. Blocchi un numero? Ne arriva subito un altro. È un cortocircuito normativo e tecnologico che lascia campo libero a chi gioca sporco.
Nel luglio 2022 è stato rilanciato con grandi promesse il Registro Pubblico delle Opposizioni, con l’obiettivo – dichiarato – di arginare il telemarketing selvaggio anche sui numeri mobili. Ma i numeri raccontano altro: oltre il 70% degli utenti iscritti continua a ricevere chiamate indesiderate, e appena l’8% afferma di non essere più disturbato.
La verità? Il RPO colpisce solo gli operatori regolari, quelli che già rispettano le regole, i furbetti, invece, se ne infischiano. E intanto, le aziende che rispettano la legge si trovano penalizzate rispetto a chi opera nell’illegalità.
Fortunatamente qualche contromisura c’è. La prima linea di difesa sono gli strumenti già presenti nei nostri dispositivi:
- Su Android, l’app “Telefono di Google” consente di attivare un filtro antispam efficace e di creare una blacklist personalizzata.
- Samsung integra una funzione nativa per bloccare chiamate sospette e phishing.
- iPhone permette il blocco diretto dei numeri dalla lista chiamate recenti.
In aggiunta, app come Truecaller e Hiya migliorano ulteriormente la protezione. Funzionano su base collaborativa: se un numero è segnalato come spam da altri utenti, viene automaticamente bloccato o identificato. Una sorta di intelligenza collettiva applicata alla privacy.
Ma anche qui, non è tutto oro ciò che luccica. Queste app richiedono il consenso a condividere il proprio numero e possono sollevare perplessità in tema di protezione dei dati. Ciascuno di noi dovrà effettuare una scelta consapevole, bilanciando privacy e funzionalità.
Eppure la soluzione esiste, ed è già attiva negli Stati Uniti, in Francia ed altri Paesi. Si chiama Stir/Shaken, un protocollo che autentica le chiamate attraverso una firma digitale, impedendo lo spoofing. Le telefonate prive di certificazione vengono bloccate direttamente dagli operatori.
I risultati? In Francia, dove il problema era simile al nostro, le chiamate indesiderate si sono ridotte dell’80%, ma in Italia, questo sistema non è ancora stato adottato. I motivi? Costi, inerzia politica, resistenze degli operatori. Come se il diritto alla tranquillità telefonica fosse opzionale.
Ci sono ben sei proposte di legge in discussione, tutte orientate verso un sistema “opt-in”, in cui l’utente deve autorizzare attivamente le chiamate commerciali. Un cambio di paradigma rispetto all’attuale “presunzione di consenso”.
Ma tra ritardi, pressioni di categoria e timori occupazionali nel settore call center, il varo di una normativa strutturata si allontana. Si parla dell’estate 2025 come ipotetica finestra. Ed almeno fino ad allora, il cittadino rimane l’anello debole.
Il telemarketing selvaggio non è solo una seccatura: è un problema culturale. Si fonda sull’idea che il nostro tempo valga poco, e che il nostro consenso sia accessorio. E allora no, non possiamo arrenderci, diventa fondamentale segnalare, denunciare, proteggersi con gli strumenti disponibili. Ma serve molto di più.
Serve una pressione sociale, una consapevolezza collettiva che costringa chi legifera ad agire. E serve una tecnologia che protegga, non che tradisca.
Perché un numero di telefono non dovrebbe mai trasformarsi in una porta aperta sul caos. E la serenità, anche quella digitale, non può essere una concessione, anzi deve tornare ad essere un diritto.