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HomeGlobal NewsCattolicesimo contemporaneoAveva 35 anni – di María Cristina Inogés Sanz

Aveva 35 anni – di María Cristina Inogés Sanz

L’età è l’elemento meno importante, ma è significativo. Il suo nome era Matteo Balzano ed era vicario parrocchiale di Cannobio, un comune della diocesi di Novara. Un prete fino ad ora anonimo, che purtroppo è finito sotto i riflettori dei media per essersi suicidato. Un evento terribile. È impensabile cosa quest’uomo abbia dovuto sopportare per arrivare a prendere e mettere in atto questa decisione.

In questo caso la diocesi, con il vescovo in testa, ha deciso di non nascondere la terribile realtà che ha lasciato la parrocchia sotto shock. Non si può neanche immaginare come stia la famiglia. È stata una buona decisione da parte del vescovo, che, in ultima analisi, è colui che ha preso la decisione finale? Direi più che buona, è ottima per diversi motivi, anche se può sembrare strano.

Il suicidio non è una novità per il clero. La vita è così difficile sotto molti aspetti che non c’è via d’uscita, e il clero è composto da persone soggette alle stesse realtà di chiunque.

L’atteggiamento più naturale è quello di cercare scuse che finiscono per essere patetiche e molto dannose per affrontare questa realtà, soprattutto quando alla fine si finisce per sapere la verità avvolta nei «sottovoce» del chiacchiericcio e nelle aggiunte di coloro che, con la premessa del «te lo dico in confidenza, non fare commenti», finiscono per creare – inventando – una storia ancora più terrificante di quanto non lo sia già la realtà. La dichiarazione della diocesi ha messo fine alle voci prima ancora che iniziassero.

Perché negarlo? Negare che un prete si sia suicidato e ricorrere al solito infarto, continua ad inviare un messaggio pericoloso ma potente per altri preti che stanno attraversando un momento difficile. Perché finiscono per interpretare la situazione come se a nessuno importi della loro situazione, anche dopo la morte, e che la cosa importante continui ad essere il buon nome dell’istituzione. Un suicidio non è solo la terribile fine di una persona; è responsabilità di tutti, e nella Chiesa ci manca ancora la sensibilità necessaria per considerare che un prete possa aver bisogno di un aiuto altamente specializzato in un dato momento.

Avrebbe potuto dare segnali che qualcosa non andava in lui, o, al contrario, ha resistito perché nessuno gli aveva insegnato a chiedere aiuto? Nessuno ha percepito il suo dolore, la sua solitudine, la sua paura, o gli è stato detto che un prete non può mostrare fragilità? Ecco perché è così importante non nascondere il suicidio di un prete, perché può accadere, e in effetti purtroppo accade. Dovrebbe farci riflettere tutti.

Chi decide di diventare prete non può essere preparato a sopportare, a dedicarsi alla Chiesa, fino al punto di provare sofferenza e di vivere in una solitudine insopportabile. Conformarsi «in persona Christi» non significa questo. La salute mentale ed emotiva del clero dovrebbe essere una preoccupazione primaria. Sebbene la formazione ricevuta nei seminari debba essere urgentemente e completamente rivista, non è sempre l’unica questione.

È la struttura stessa di un modello ministeriale che non serve né alla società né alla Chiesa del XXI secolo. Finché non crederemo questo sul serio, sarà inutile raccomandare che, quando la vita sembra oscurarsi (e succede davvero), bisogna affidarsi alla preghiera. La preghiera è qualcosa di più bello e profondo per poterla trasformare in una risorsa di uno sciamano tribale.

Il Vangelo avverte già che un cieco non può essere guida per un altro cieco. Pertanto, quando un prete ha bisogno di aiuto, un altro prete non è sempre la soluzione migliore. Non è bene che un prete che osa chiedere aiuto venga indirizzato a un terapeuta particolare «perché gode della fiducia della diocesi». In alcune diocesi questo accade. La scelta deve essere libera perché bisognerà immergersi nel profondo della persona e quest’immersione deve essere accompagnata dalla persona che si è deciso liberamente si scegliere.

Sapere che un prete si è suicidato, con tutto il dolore che genera, proprio come il suicidio di qualsiasi persona, dovrebbe farci riflettere e non cercare nel clero la versione quotidiana e accessibile di Superman. La tonaca o il clergyman non possiedono né conferiscono poteri sovrumani. E neanche l’imposizione delle mani durante l’ordinazione trasforma un uomo in un eroe, né la tanto pericolosa «paternità spirituale» lo fa stare al di sopra ed al sicuro degli alti e bassi umani. Il solo comprendere che, prima di tutto, sono uomini, sarà già un grande passo avanti.

Oggi, il suicidio di un prete dovrebbe essere per noi uno scossone tremendo, che ci faccia riflettere su quanto ci sia ancora da fare nella Chiesa.

Riposa in pace, Matteo.

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Lorenzo Tommaselli
Lorenzo Tommaselli
Lorenzo Tommaselli è docente di lettere classiche presso il Liceo “Alfonso Maria de’ Liguori” di Acerra (NA). È stato docente invitato di lingue classiche presso la PFTIM dell’Italia meridionale, sez. San Luigi. Traduttore e curatore di testi di Jacques Gaillot e José María Castillo, si occupa di animazione biblica in gruppi di base.

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