Insomma, la buona notizia è che il peggio – forse – è alle spalle. La cattiva, invece, è che siamo ancora lontani da un vero cambiamento strutturale. E lo dico senza giri di parole: se non ripensiamo radicalmente il nostro approccio al movimento, la sedentarietà continuerà a presentare un conto salato, non solo in termini di salute.
I numeri non mentono, ma parlano sottovoce, secondo i dati relativi al biennio 2023-2024, il 50% degli adulti italiani tra i 18 e i 64 anni è “fisicamente attivo”, ovvero soddisfa le soglie minime raccomandate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: 150 minuti a settimana di attività moderata, oppure 75 di attività intensa. Un miglioramento rispetto al 45% della precedente rilevazione, certo. Ma ancora troppo modesto, considerando che quasi un italiano su tre (27%) resta completamente sedentario.
La situazione è persino più critica tra gli over 65: solo il 42% raggiunge i livelli raccomandati di attività, mentre il 37% resta completamente inattivo. E qui il problema non è solo anagrafico. È sociale, culturale, persino psicologico.
Una questione generazionale… ma non solo. la sedentarietà cresce con l’età, questo è evidente. Ma non è una legge di natura. È piuttosto una combinazione di ostacoli strutturali e resistenze interiori. Dopo i 50 anni, aumentano le difficoltà oggettive (problemi di salute, mobilità ridotta, isolamento sociale), ma anche quelle che definirei “autoassoluzioni culturali”. Si tende a pensare che il movimento sia cosa da giovani, quasi fosse una questione estetica, quando invece è – a tutti gli effetti – un bisogno fisiologico e uno strumento di prevenzione primaria.
Basterebbe leggere qualche studio sulla correlazione tra attività fisica e riduzione del rischio di patologie cardiovascolari, diabete di tipo 2 o declino cognitivo per rendersi conto di quanto possa incidere sulla qualità della vita. Ma spesso, la distanza tra l’informazione disponibile e il comportamento reale resta abissale.
Nord e Sud, sembrano due Paesi (quasi) diversi, infatti se si osservano i dati in chiave territoriale, il divario è ancora più marcato. Nel Nord Italia i sedentari sono il 16%, mentre al Sud salgono al 38%. In Calabria, addirittura, si supera la soglia del 50%. Tuttavia, ed è un dato interessante, proprio le regioni meridionali hanno mostrato i miglioramenti più significativi rispetto all’epoca pandemica. Segno che qualcosa si sta muovendo anche dove, storicamente, il movimento era percepito più come un lusso che come una necessità.
Questa inversione di tendenza merita attenzione. Forse è il risultato di campagne di sensibilizzazione più efficaci, forse di una rinnovata coscienza, post-Covid-19, del valore della salute. Ma serve consolidarla, trasformando un trend in una strategia.
Un altro punto critico riguarda il legame strettissimo tra inattività fisica e svantaggio socioeconomico. I numeri parlano chiaro: tra chi ha solo la licenza elementare la sedentarietà raggiunge il 49%, mentre tra i laureati si ferma al 22%. Tra chi ha “molte difficoltà economiche” si arriva al 40%, contro il 23% di chi ne è esente. È il riflesso di una società che ancora associa il movimento al tempo libero, alla disponibilità economica, alla cultura del benessere. Invece, dovrebbe essere garantito come diritto di base, al pari della prevenzione medica.
Un dato su cui vale la pena soffermarsi è quello sulla percezione soggettiva. Il 23% dei sedentari è convinto di essere abbastanza attivo. Cosa ci dice questo? Che la distanza non è solo comportamentale, ma anche cognitiva. Sottovalutiamo il nostro immobilismo, sopravvalutiamo lo sforzo fatto. Pensiamo che portare fuori il cane o fare due rampe di scale al giorno sia sufficiente. Non lo è. E qui si apre una questione comunicativa enorme, che riguarda il linguaggio, gli esempi, i modelli.
In questa situazione, il grande assente è il consiglio medico, infatti appena 3 adulti su 10 dichiarano di aver ricevuto dal proprio medico l’invito a praticare attività fisica. Tra gli over 65, appena il 27%. È troppo poco. Serve una rivoluzione culturale anche nella medicina di base: non possiamo più pensare alla prescrizione del movimento come a un optional. Dobbiamo introdurre, formalmente, la “ricetta per l’attività fisica”, come già avviene in altri Paesi europei. E farlo diventare un atto clinico, non una raccomandazione generica.
Quindi è necessario costruire una cultura del movimento basata su idee e azioni concrete. Cosa si può fare? Alcune azioni sono tanto semplici quanto trascurate:
- Incentivare economicamente chi si muove, anche in chiave assicurativa.
- Premiare i Comuni che investono in mobilità dolce e infrastrutture per lo sport.
- Rendere l’educazione fisica centrale nel curriculum scolastico, non marginale.
- Integrare programmi di movimento nei contesti aziendali.
- Potenziare l’informazione pubblica, usando testimonial credibili, non stereotipati.
E infine, cambiare narrativa. Il movimento non è solo fitness. È relazione, è prevenzione, è qualità della vita. È – e lo dico con convinzione – una forma di cittadinanza attiva.
Non possiamo più limitarci a dire che “muoversi fa bene”. È ora di riconoscere il movimento come uno dei pilastri delle politiche pubbliche, alla stregua dell’alimentazione, del lavoro e dell’istruzione. Perché camminare, pedalare, danzare, giocare… non sono solo attività fisiche. Sono atti politici. Sono scelte, scelte da rinnovare ogni giorno. E più saranno collettive, più faranno bene a tutti.