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HomeGlobal NewsCattolicesimo contemporaneoUna retta vita non ha bisogno di sorveglianza: etica del rispetto contro dogma – di José Carlos Enríquez Díaz

Una retta vita non ha bisogno di sorveglianza: etica del rispetto contro dogma – di José Carlos Enríquez Díaz

Per secoli la Chiesa ha cercato di definire cosa sia una «vita retta». Ne ha tracciato i confini con regole, comandamenti, divieti e dogmi. Ci ha detto, con un’autorità che molti hanno considerato indiscutibile, come dovremmo vivere, pensare, parlare, amare e persino sentire. Ma cosa succede quando questa «rettitudine» non nasce da un cuore libero, ma piuttosto dalla paura della punizione o dal desiderio di essere accettati da una struttura? È questa vera rettitudine?

Una vita retta, nel suo senso più umano e profondo, non è necessariamente quella che segue i dettami di un’istituzione. Non è una vita che si conforma millimetricamente a norme imposte dall’esterno. È, soprattutto, una vita vissuta con coscienza, con rispetto, con autenticità. È la vita di chi non ha bisogno di sorvegliare o di essere sorvegliato, perché ha interiorizzato qualcosa di più prezioso di qualsiasi regola: l’amor proprio e il rispetto per gli altri.

Esiste un’etica che non si impone dall’esterno, ma che scaturisce dall’interno. Un’etica che non ha bisogno di confessori o tribunali morali, ma di un cuore libero e responsabile. In questo orizzonte una persona retta è chi si rispetta, si conosce, si accetta e a partire da questa posizione di pace tratta gli altri con la stessa delicatezza con cui vorrebbe essere trattata.

Gesù non è stato un custode della morale. Non ha condannato la donna adultera, non ha additato il pubblicano per la sua corruzione, non ha escluso i malati, né coloro che la legge religiosa considerava «impuri». Ciò che ha fatto è stato criticare aspramente coloro che credevano di avere il monopolio della morale: i farisei, i dottori della legge, coloro che vivevano sempre attenti ai difetti altrui nascondendo le proprie contraddizioni.

In Mt 23,4 Gesù è chiaro: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito».

Non è forse questo ciò che molte volte la Chiesa ha fatto? Ha dettato norme su sessualità, sul genere, sulla famiglia e i ruoli sociali, escludendo, ferendo e colpevolizzando milioni di persone. Nel frattempo, al suo interno il potere, l’abuso, il silenzio complice hanno prosperato impunemente. È questa una vita retta?

Un mio caro amico diceva sempre che sua madre, ormai anziana, era solita affermare: «Una donna retta non si intromette nella vita degli altri». In questa frase semplice c’è una profonda saggezza. La vera rettitudine non ha bisogno di controllare la vita degli altri; non si alimenta del giudizio o del pettegolezzo; non prova piacere nel puntare il dito contro qualcuno. È un modo di stare al mondo senza invadere, senza manipolare, senza imporre.

La Chiesa, se vuole essere testimone della rettitudine, deve abbandonare la sua ossessione per il controllo morale. Non si può parlare di libertà in Cristo mentre si sorveglia il letto, il pensiero, l’identità o il desiderio dell’altro. Non si può predicare l’amore mentre si punisce chi è diverso. Non si può proclamare la verità mentre si tace sugli abusi commessi in nome di Dio.

Gesù non è venuto per imporre l’ennesima legge. È venuto per liberare. Come dice il vangelo di Giovanni: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Non ha detto «la legge vi renderà santi» né «il dogma vi renderà obbedienti», ma la verità e questa verità non è un sistema di regole, ma un’esperienza viva di amore, giustizia e compassione. La vita retta proposta dal Vangelo non è fatta di compimento esteriore, ma di trasformazione interiore.

Pertanto, una vita retta è una vita in cui non c’è bisogno di maschere o rituali per simulare purezza. È una vita in cui ci si può guardare allo specchio senza sensi di colpa o paura. In cui si può dire: «Faccio quello che faccio non perché mi viene ordinato, ma perché ho capito che l’amore, la cura e la giustizia sono il mio modo di essere al mondo».

Quando una persona si ama, si rispetta e si prende cura di sé, non ha bisogno che qualcuno le dica di non fare del male agli altri. Non ha bisogno di un comandamento per non rubare, perché ha compreso il valore dell’altro. Non ha bisogno di una dottrina sull’amore, perché sa amare. Questo è ciò che significa avere «la legge scritta nel cuore», come ha profetizzato Geremia (Ger 31,33). Non su tavole, non nei catechismi, non nei codici canonici, ma nella coscienza viva di ogni persona.

La grande tragedia di molte religioni, inclusa la Chiesa, è stata quella di sostituire questa coscienza con un’obbedienza cieca. Hanno formato fedeli, non persone libere. Hanno prodotto paura, non maturità. Hanno confuso rettitudine con repressione, fede con sottomissione, morale con castigo. Ma quando alle persone viene insegnato a vivere nella paura, tutto ciò che si ottiene è ipocrisia.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di una spiritualità del rispetto. Un’etica della cura e del silenzio interiore. Una rettitudine che non si ostenta, non si esibisce, non presume. Una rettitudine vissuta nella vita di tutti i giorni: nel modo in cui ascoltiamo, nel modo in cui perdoniamo, nel modo in cui condividiamo, nel modo in cui amiamo.

La Chiesa dovrebbe essere la prima a deporre le vesti del giudice e a vestirsi da sorella. Dovrebbe smettere di sorvegliare e iniziare ad accompagnare. Dovrebbe abbandonare il pulpito morale e scendere nel fango umano, dove risiede la vera compassione. Altrimenti, continuerà ad essere una struttura che impone, ma non trasforma.

E forse allora potrà cominciare a vedere le persone non come soggetti che devono obbedire, ma come esseri capaci di costruire la loro vita morale a partire dalla libertà, dalla coscienza e dalla responsabilità condivisa. Questa è la vera etica: non quella dettata da un codice, ma quella che si vive in comunità, nella relazione, a partire dal basso. Questo è ciò che hanno affermato voci critiche e piene di speranza all’interno dello stesso pensiero cristiano. È così che la vivono, senza saperlo, tante persone rette, che non si sono mai confessate, ma che vivono nella verità.

Perché ci sono anche coppie che non sono mai state all’altare, che non sono unite da alcun sacramento, eppure vivono il loro amore con una verità, una dedizione e un rispetto che superano molti matrimoni che hanno una benedizione ufficiale. Coppie che non hanno bisogno di un documento o di un riconoscimento ecclesiale per essere fedeli, solidali, pazienti e teneri. Vivono il Vangelo senza nominarlo, incarnano l’alleanza senza rituali. Eppure, spesso sono giudicate, disprezzate o ignorate per non essere rispettose della forma esteriore. Ma se c’è un luogo dove Dio vive, è lì dove c’è vero amore.

Sant’Agostino, con la sua radicale saggezza spirituale, lo capiva. Si dice che, entrando in una casa, non chiedesse informazioni sui documenti, ma sull’amore tra le persone che vi abitavano. Non gli importava se fossero sposati secondo il rito, ma se si amassero veramente. Perché sapeva – come ha detto in una sua famosa frase – che «chi ama non può fare del male».

Quando l’amore è autentico, puro e reciproco, tutto il resto va al suo posto. Un sacramento senza amore è un rito vuoto; ma l’amore, anche senza sacramento, è presenza divina!

Perché, in fin dei conti, una vita retta non richiede sorveglianza o comandamenti; richiede verità interiore. E questa verità, come diceva Gesù, libera.

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Lorenzo Tommaselli
Lorenzo Tommaselli
Lorenzo Tommaselli è docente di lettere classiche presso il Liceo “Alfonso Maria de’ Liguori” di Acerra (NA). È stato docente invitato di lingue classiche presso la PFTIM dell’Italia meridionale, sez. San Luigi. Traduttore e curatore di testi di Jacques Gaillot e José María Castillo, si occupa di animazione biblica in gruppi di base.

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