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16 Maggio 2025
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Blue Economy: quando il mare non è solo paesaggio, ma anche economia

Parlare di mare in Italia è quasi un atto dovuto. Ma farlo oggi, in un contesto in cui l’economia blu assume un ruolo sempre più centrale nelle politiche ambientali ed industriali europee, significa affrontare un tema strategico. Un tema che intreccia innovazione, sostenibilità e sviluppo territoriale. E che, finalmente, comincia a ricevere l’attenzione che merita.

La chiamano Blue Economy, e non è l’ultima trovata del marketing ecologista. È una visione economica concreta, fondata sull’uso sostenibile delle risorse marine e costiere, capace di coniugare tutela ambientale e opportunità di crescita. Una sintesi tra economia circolare, governance marittima e tecnologie d’avanguardia.

L’Unione Europea lo ha capito da tempo: senza un utilizzo strategico degli ecosistemi marini, la transizione ecologica resterà monca. I mari, che coprono il 72% della superficie terrestre e generano il 50% dell’ossigeno che respiriamo, sono al centro delle politiche ambientali dell’Agenda 2030 e del Green Deal europeo. Ma non solo. L’economia del mare – secondo l’OCSE – genera oggi il 2,5% del valore aggiunto globale e impiega oltre 31 milioni di persone nel mondo.

Ecco allora che la “Blue Economy” diventa una piattaforma di sviluppo. Non un settore, ma un ecosistema che include pesca sostenibile, energie rinnovabili marine, turismo costiero, acquacoltura intelligente, desalinizzazione, biotecnologie marine, digitalizzazione delle infrastrutture portuali. Con un comune denominatore: zero emissioni nette e rigenerazione ambientale.

Con oltre 8.000 km di coste e una superficie marina che supera quella terrestre, l’Italia è un laboratorio naturale per la Blue Economy. Eppure, troppo spesso, questa potenzialità resta sottotraccia.

Secondo il “XII Rapporto sull’Economia del Mare“, in Italia il comparto blu vale 178 miliardi di euro, pari al 10,2% del PIL. Le Regioni del Sud guidano la classifica con circa un terzo del valore prodotto, ma la crescita è distribuita. Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Lazio e Sicilia sono tra le più performanti. E alcune province – Trieste, Livorno, La Spezia – toccano picchi di valore aggiunto oltre il 15%.

Numeri che raccontano di una filiera viva, ma ancora frammentata. Mancano visione strategica unitaria, investimenti continui in innovazione e – diciamolo – una comunicazione adeguata. Perché il mare è anche un racconto, e noi dobbiamo imparare a farlo meglio.

C’è un aspetto della Blue Economy che personalmente trovo affascinante: la sua natura innovativa. Non si tratta di adattare modelli esistenti, ma di crearne di nuovi. Prendiamo la biomimesi, ad esempio: lo studio dei meccanismi naturali per progettare tecnologie sostenibili. Dai materiali ispirati alla pelle degli squali per ridurre l’attrito delle navi, ai pacemaker che sfruttano la temperatura corporea e la pressione acustica, come nel caso del progetto guidato dal professor Jorge Reynolds.

E poi le energie rinnovabili marine. L’eolico offshore, il solare flottante, gli impianti che producono energia dalle maree o dal moto ondoso sono già realtà in fase di espansione, con l’Italia che, pur in ritardo, comincia a muovere i primi passi strutturati.

Ma la Blue Economy non è solo tecnologia. È anche cultura, educazione, senso di appartenenza. È turismo lento e sostenibile, è pesca che diventa presidio di biodiversità, è recupero dei borghi marinari. È rigenerazione delle filiere, ma anche delle comunità costiere.

Un esempio? I distretti ittici in Sicilia che uniscono imprese, università e istituzioni per valorizzare le risorse locali in chiave sostenibile. O i percorsi di formazione marina realizzati in collaborazione con il Ministero dell’Università. Non si tratta solo di creare posti di lavoro, ma di costruire una nuova narrativa collettiva intorno al mare.

Non mancano le sfide. L’inquinamento marino – che con le microplastiche in primo piano – resta una ferita aperta. La legalità in alcuni contesti costieri è ancora fragile. E troppo spesso la governance risulta disarticolata tra enti locali, Stato e Unione Europea. Ma i segnali positivi non mancano: il programma BlueInvest, con i suoi 75 milioni di euro per startup innovative, o la Sustainable Blue Economy Partnership, che coinvolge 60 partner in 25 Paesi, sono strumenti che iniziano a dare frutti concreti.

Non possiamo più permetterci di vedere il mare solo come sfondo delle nostre vacanze o come confine geografico. È un asset economico, un laboratorio di innovazione ed un patrimonio da proteggere. La Blue Economy rappresenta l’unica vera sintesi tra sviluppo e sostenibilità che abbiamo oggi a disposizione. Ed è nostro dovere – come cittadini, imprenditori, politici – imparare a navigarla.

Perché, come recita un vecchio proverbio marinaro, “chi non sa dove andare, non ha mai un vento favorevole”. Ora che la direzione l’abbiamo chiara, tocca a noi spiegare le vele.

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